“Le Alpi separano quattro nazioni d’ Europa da noi. A differenza di quello che fa il mare Mediterraneo, antica via di comunicazione tra genti di costa, l’arco alpino fa da sbarramento. Da una parte e dall’altra sono state costruite imponenti fortificazioni e castelli arroccati a rinforzo dell’ostacolo naturale.
Sul mare si arriva a un porto, in montagna invece la cima non è arrivo, ma fine di salita e inizio di discesa. Arrivo per chi va in montagna è il ritorno alla base, come nel gioco dell’oca, però con molt’aria buona passata dai polmoni al sangue.
Le Alpi separano i popoli. Solo l’alpinismo, nato per l’appunto lassù, è riuscito a offrire esempio contrario. Due scalatori partiti da versanti opposti del Cervino si ritrovano sulla stessa cima. Dimostrano così, almeno per loro, che la montagna unisce.
L’alpinismo non può cancellare i confini, ma li sa scavalcare. Mettersi a cavalcioni sopra una montagna usata per frontiera invalicabile è una buona presa in giro. La funzione di sbarramento assegnata alle Alpi dalla nostra storia è stata corretta più dall’alpinismo, nato appunto là sopra, che dai trafori.
Da praticante ho messo le dita su molte pareti delle Alpi, dal granito del Monte Bianco al calcare delle Dolomiti. Di recente ho scalato una montagna coinvolta nella Prima Guerra Mondiale. Un secolo fa si scatenò in alta quota il più assurdo scontro militare. Le battaglie e le conquiste di qualche cocuzzolo non servivano a niente, perché le sorti della guerra si decidevano in pianura. Quando il fronte italiano fu travolto a Caporetto, le nostre postazioni in montagna si trovarono nelle retrovie austriache e furono perdute.
Chi va lassù trova ancora trincee e baracche scavate nella roccia. Alle stragi dovute a impossibili attacchi contro linee arroccate più in alto, su aggiunsero le valanghe e il gelo a distruggere quella gioventù, costretta per due inverni alla peggior malora.
Ho scalato in cordata una linea di salita intitolata “Via della Grande Guerra”, che percorre la parete nord ovest del monte Castelletto, addossato alla Tofana di Rozes. Sulla cima c’era una postazione austriaca. Per la sua posizione di dominio sulla vallata era strategica, aggettivo usato a vanvera da certe autorità di oggi per degli impianti di smaltimento rifiuti o perforazioni di gallerie superflue.
Nel luglio del 1916 i reparti italiani accampati alla base del Castelletto, al riparo dall’artiglieria della cima, avevano terminato la galleria verticale, questa sì strategica. Dalla base della montagna per cinquecento metri di scavo a spirale, erano arrivati a piazzare una gigantesca mina, trentacinque tonnellate di esplosivo. Tapparono bene in modo da scaricare l’immensa energia verso l’alto. Alle 3,30 di una serena notte di luglio la carica esplose distruggendo parte della cima e trascinando valanghe di rocce e sassi. Stanno ancora lì. L’esplosione non riuscì a sgomberare subito il presidio austriaco, che resistette altri giorni tra le macerie.
Ho scalato la “Via della Grande Guerra” facendo il viaggio opposto della legge di gravità e di guerra che buttò giù una parte del Castelletto. Arrivati in cima siamo poi scesi lungo la galleria della camera di scoppio della mina italiana. Oggi è un percorso attrezzato con un cavo da cima a fondo. Senza lampada frontale siamo scesi dentro quel buio spugnoso e spesso. Misuro il buio a spessori e quello era integrale. In discesa a tentoni in un pozzo di cinquecento metri, facevamo il viaggio opposto a quello dei soldati italiani che dopo lo scoppio salirono la galleria per andare all’assalto.
Il Castelletto è un monumento all’imbecillità criminale di una guerra partita per l’uccisone di un erede al trono e finita con l’ annientamento di dieci milioni di vite di soldati.
Si portano studenti a visitare celebri città europee e solenni musei. Non so se i programmi scolastici prevedono anche percorsi tra le montagne prese a cannonate un secolo fa. Nel caso suggerisco l’inverno, per un minuto di raccoglimento e di congelamento, per condivisione con una gioventù buttata in pasto ai corvi.
Amo le Dolomiti, il loro calcare sgretolato dai fulmini e dai ghiacci, ammucchiato alle pendici a rimboccarle. Lungo i ghiaioni sono salito a stento e sceso a rompicollo. Ho incontrato i camosci, gli stambecchi e l’aquila, sovrana in aria e goffa in terra. Di fronte a loro mi riconosco intruso, ma più di me là sopra intrusa fu la guerra. Le Alpi sono spazi di pace.
Tra le montagne incontro persone come Pietro Dal Prà, guida alpina, che si è fatto donatore di midollo osseo, coinvolgendo altri suoi colleghi e alpinisti nella magnifica economia del dono, da vita a vita. Pietro mi racconta di come insegna la scalata a dei ragazzi ciechi, la precisione lieta con cui eseguono i movimenti da lui indicati. Dice che con loro mentre insegna impara. E per meglio intendere il suo compito, si benda per scalare insieme al loro buio.
In montagna s’incontra gente simile se si sposta il passo e lo sguardo dai paraggi degli impianti di risalita. Perché la montagna inizia dove quelli smettono.”