Torno in un’aula di giustizia per ascoltare le conclusioni dei miei accusatori, le loro ragioni e la richiesta di pena da caricare sul tempo a venire. Il Pubblico Ministero cerca di dimostrare la mia pericolosità di scrittore, la responsabilità penale delle mie parole. Parla per circa un’ora. So che la condanna può stare tra uno a un massimo di cinque anni di prigione. Mi aspetto la richiesta maggiore, dopo il profilo criminale tracciato dalla requisitoria. Invece ascolto la richiesta minima, un anno e pure con l’applicazione delle attenuanti generiche, che abbassano la pena a otto mesi. Non capisco. I miei avvocati su mia richiesta non chiederanno attenuanti in caso di condanna. Alle parole non si possono applicare, altrimenti si riducono di valore.
Le attenuanti le offre invece la pubblica accusa, malgrado io abbia ripetuto le mie frasi incriminate in ogni luogo pubblico in questi due anni. Malgrado la mia recidiva difesa delle parole accusate di istigazione, aggravante certamente prevalente sulle attenuanti generiche, ecco la gentile richiesta di minore pena.
Non immaginavo che la pubblica accusa avesse perso tanto zelo accusatorio in questa sua crociata contro le parole di uno scrittore.
Non mi si è ristretto il cuore, non sono accelerati i battiti. Stavo per la quarta volta quest’anno nell’aula dove le mie parole sono capo d’imputazione, stavo lì a difenderle e ridirle. Loro, le mie parole, sono al riparo dalle condanne, dalle detenzioni. Stanno sparse negli scaffali, vengono pronunciate all’aria aperta da centinaia di appuntamenti dove i lettori decidono di testimoniare il loro sostegno leggendole a voce alta, mettendoci fiato e pulsazioni. Se su di loro peserà una condanna penale, me ne faccio carico io che sono il loro portatore. Loro,le mie parole, restano e resteranno libere di circolare.
Non sono il portavoce delle ragioni della Val di Susa. Faccio invece da antenna,che ha potuto in questi due anni di incriminazione trasmettere più lontano il loro segnale di resistenza e di legittima difesa, farlo conoscere di più.
Una condanna non potrà annullare questo risultato.
Lunedi 19 ottobre si aprirà l’ultima udienza, leggerò una mia dichiarazione, ascolterò la sentenza. Non faccio pronostici. Qualunque essa sia, per quello che mi riguarda sarà la parola fine di questa vertenza tra lo Stato e un suo cittadino sul diritto di impiego della parola contraria.
English translation by Jim Hicks
I’m back in a courtroom to hear the closing speeches of my accusers—their explanations and their petition for a sentence to encumber the days to come. The public prosecutor seeks to demonstrate the danger I pose as a writer, and the criminal culpability of my words. He speaks for roughly an hour. I know that the sentence can vary between one and five years of prison. I expect him to ask for the maximum, given the criminal profile sketched during his closing. Instead I hear a petition for the minimum: one year, and taking into consideration the general mitigating circumstances, the sentence would be reduced to eight months. I don’t understand. If found guilty, at my request, my own lawyers will not ask for mitigating circumstances to be considered. Such considerations shouldn’t be applied to our words, otherwise their value would also be diminished.
And instead mitigating circumstances are offered by the prosecution, despite the fact that for the past two years I have restated my allegedly criminal words in every possible public place. Despite my repeated offense in defending these words charged with instigation (aggravating circumstances that surely must outweigh such general mitigations), here is a polite request for the minimum sentence. I never imagined the prosecution losing so much accusatory zeal in its crusade against the words of a writer.
My heart didn’t sink, and it didn’t start pounding either. For the fourth time this year I was in a courtroom where my words were under indictment; I was there to reiterate them and defend them. My words themselves are safe, both from sentencing and from detention. They’re scattered across bookshelves and have been spoken aloud in hundreds of open air venues, where readers decided to give evidence of their support—reading aloud, adding their own pulse and breath. Should they be freighted with a criminal conviction, I’ll take charge of them, since I’m their porter. My words themselves will stay, and remain, free to circulate.
I am not a spokesperson for the cause of the Susa Valley and its people. I serve as their antenna—in these two years under indictment I’ve managed to relay a message about their resistance and legitimate self-defense, to make their cause more widely known. A guilty verdict will not succeed in cancelling this effect.
On Monday, October 19, the final hearing will be held, I will read a statement of my own, and I will listen to the verdict. I make no predictions. Whatever happens, for me it will be the last word in a dispute, between the state and one of its citizens, concerning the right to employ dissent
– See more at: http://www.pen.org/essay/last-word#sthash.XYXTit2U.dpuf
La storia non cambia, si ripete sempre. Se penso a cosa ha dovuto e ancora deve sopportare un uomo innamorato della vita e del suo paese, nonostante le interferenze di chi crede di essere al di sopra delle leggi, quelle umanamente ed eticamente giuste, intendo, mentre fa del suo meglio per salvaguardare e rendere gli altri partecipi di tanta bellezza, mi sento davvero male. Sono infinitamente triste per questo sopruso ai danni di un innocente legittimato dalla giustizia italiana. Arianna dl (bari)
Un abbraccio virtuale. Quello che sta succedendo è un’enormità, e nessuno ne parla. Un’aberrazione. I confini a geometria variabile della libertà di espressione sono la prova dell’autoritarismo dello Stato. Dire che il cantiere TAV va sabotato è reato penale, dire che un campo rom va raso al suolo è legittimo esercizio della libertà d’espressione. C’è altro da dire?
E se la sentenza del 19 ottobre fosse “senza parole” come alcune barzellette? Cioè vuota, silenziosa, come a dire: finora abbiamo scherzato!?
Caro Erri
Nel mio lavoro incontro persone detenute mentre lo sono. Molti anni fa avevo 33 anni. Conobbi una detenuta europea, ci incontravamo per colloqui istituzionali e, non una confidenza perché io stavo dall’altra parte della scrivania, ma dopo un po’ ci riconoscemmo una reciproca affidabilità. Era stata arrestata all’aeroporto e condannata a 5 anni per droga. Era figlia di un Console e si trovò a scontare la pena nel carceretto dove io ero stato inviato in missione per due giorni la settimana. Durante un colloquio la giovane mi racconta che il fratello minore ha seri problemi psichiatrici e più volte è stato ricoverato in ospedale psichiatrico. Ascolto senza intervenire. Lei prende vela o ha bisogno di sfogarsi, con una spavalderia che nasconde il bisogno di dire mi racconta che il fratello curiosando tra le carte del padre aveva realizzato di una intesa tra Stati, dove a margine d’altro si leggeva una combinazione, la vendita di armi ad uno Stato in cambio di una disponibilità a rifornire di alimenti un altro Stato. Specificò che non c’era relazione tra le due nazioni, si trattava di una compensazione etica.
Evviva la scuola della disobbedienza! Abbraccio il tuo libero pensiero di oggi con quello di ieri di un attualissimo Don Milani. E ti abbraccio per consolare la mia sconsolatezza….
@dry