In un periodo della mia gioventù a Roma mi sono procurato qualche guadagno facendo fotografie. Agli attori ne servivano molte da distribuire nelle varie produzioni. A ogni servizio ne occorrevano venti, suddivise in ritratto viso, primo piano e figura intera. Servivano in bianco e nero.
Sviluppavo la pellicola, poi stampavo nella camera oscura di un amico.
Nella penombra di una lampadina rossa vedevo affiorare le facce dalla bacinella dell’acido. Ho ancora nel naso l’odore di quel bagno chimico in cui c’entrava l’argento.
Nelle fotografie di allora la luce attraversava il buio di una catacomba per arrivare a fissarsi sulla carta. Era un procedimento di laboratorio.
Alla fine le appendevo con le mollette a un filo ad asciugare. Con quello che guadagnavo ricompravo materiale e mangiavo in trattoria.
Anche allora scrivevo, erano poesie, alcune me le pubblicarono. Ricordo pure che me le pagarono. Poi arrivarono gli anni del noi e l’io finì assorbito in quel magnifico plurale.
La scrittura è tornata a tenermi compagnia dopo lo scioglimento.
Anche le pagine affiorano da una camera oscura, che è distanza di tempo e dimenticanza. Quando dal buio spunta un ricordo iniziano le righe.
Passano anche loro da sviluppo e stampa in bianco e nero.