Un muro serve a dividere e il suo migliore destino è di essere abbattuto. Quello di Berlino venne demolito. Non si trattò di crollo, non ci fu cedimento strutturale. Era ben fatto, ma fu annullato dalla storia, che ha il suo miglior risultato nell’abbattimento di barriere.
Un muro: a guardarlo fa venire malumore. Perciò approvo chi li dipinge, li disegna, li colora. Appoggio chi rende guardabile un muro. Hanno fatto una pittura murale a Rebibbia, nel cortile dei detenuti a regime speciale. Non serve che sia addirittura arte, basta che sia rivestito di colori. Perché un muro nudo è osceno.
In prigione i rinchiusi mettono illustrazioni assortite appiccicate alle pareti, per poterle guardare, per igiene degli occhi. Salvatore Saitto, Rore, è stato residente di lungo corso dentro reclusioni, insieme a sconosciuti inseparabili e insieme al tempo. Lì dentro si contano i minuti e si scontano gli anni. Rore non ha potuto dipingere i muri, non è permesso. Allora li ha raccontati. Il loro vuoto è stato usato alla maniera di uno schermo bianco, sul quale proiettare la sua voce. I suoi racconti dovevano avere la forza di sovrapporsi alle pareti e far scorrere su di loro le storie che si raccontano i prigionieri, che sono gli assenti di fuori. Sono a volte favole di assediati dentro una fortezza, a volte desideri così precisi da sfondare il soffitto trovandosi a bivaccare di notte sotto il cielo. Altre volte sono ricordi di quando si sporgevano sul vuoto fuori legge. Succede pure agli alpinisti di smettere di farlo, di prendere vertigine al ricordo. Ancora di più succede a chi stagiona nella salamoia delle galere. “Pane e cipolle, ma nel letto mio”: questa è la sentenza raggiunta e definitiva di chi è diventato un altro se stesso, a forza di vedere sopra i muri vuoti scorrere il racconto della propria vita. Rore è riuscito a salvare pezzi di tempo con le storie, a voce e scritte. Su di luì applico la mia formula opposta a quella che dice: “Sono finito in galera”. La formula è: “Sono ricominciato, in galera”. Facendosi narratore, colorando muri.
Un giorno saranno demoliti, è così da quelli di Gerico in poi. Rore non abita più lì. Altri uomini al suo posto tentano di ricominciare, là dove quelli di fuori li danno per finiti.
Introduzione a “Così mi nasceva la solitudine” di Salvatore Saitto
Tratto da: “Il Giardino di cemento armato. Racconti dal carcere a cura di Antonella Bolelli, Ferrera, edizioni RaiEri 2014
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