In un congresso per la difesa della cultura, Parigi 1935, Pasternak disse: “La poesia è nell’erba e basta chinarsi per raccoglierla”.
Vuol dire che si trova dappertutto e va colta coi sensi aperti allo stupore.
Pasternak indica la predisposizione interiore, l’inchino per accogliere la poesia.
Il liceo che ho frequentato prescriveva lo studio a memoria di molti versi. Era una ginnastica mnemonica utile ad ampliare il deposito, ma nociva per l’apprezzamento. Si badava al ritmo delle sillabe, le parole ridotte a scioglilingua a forza di ripeterle.
Ho dovuto reimparare la poesia.
Mi ha rieducato Lorca, poi Rilke, poi Whitman, poi altri.
Di loro trattengo singoli versi penetrati sotto pelle prima di immagazzinarsi in memoria.
Non sono per me fili d’erba raccolti, somigliano ai colpi di coda, ai guizzi di un pesce fuor d’acqua.
La poesia m’insegna a percepire la conosciuta cosa sotto una più intensa illuminazione. La realtà diventa una scena dove un direttore della fotografia allestisce luci.
“Nel cantare insieme di stelle del mattino”.
Davanti a me lettore fa un tuffo di pietra nell’acqua un fervido verso del libro di Giobbe.
Sempre bello leggere la realtà attraverso i tuoi occhi