Ammucchio in una sola bella estate le sedici che ho passato sulla isola d’Ischia da uno a sedici anni. Sbarcare a luglio era togliersi le scarpe e liberare i piedi. La libertà cominciava da lì. Poi si estendeva al resto del corpo che si esponeva a sale e sole, procurando la muta della pelle. Cadeva a pezzi e a bolle quella cittadina e ne saliva una scura, spessa, resistente. I capelli sciacquati con acqua salata diventavano un cespuglio di colore giallo. Oggi accorpo quelle estati in una sola, i baci acciuffati sono tutti compresi nel primo, dato e ripetuto. Tutti i pesci pescati stanno nelle aguglie prese a traino a settembre, tutti i dolori nella puntura della tracina sotto il piede. Oggi disteso sul tetto di una casa su un’isola greca, rivedo la stessa baraonda di stelle che mi facevano pizzicare gli occhi. E riconosco la stessa fantasia di intendere il cielo notturno come un guscio di conchiglia e io sotto sono il suo inquilino che lo porta in giro. Ancora oggi il suo peso in quell’ora è leggero. Poi sono venute le estati in montagna, le vie di roccia sulle Dolomiti, dove la leggerezza dovevo mettercela io. Visito cime raggiunte a quattro zampe, non mi viene in mente di consigliare qualcosa di simile a un altro. I libri e le montagne sono incontri, non si possono raccomandare. Una volta portavo qualcuno alla mia corda per la sua prima volta, oggi non più. Troppi acciacchi non mi permettono la responsabilità di una vita annodata alla mia, sul vuoto. Vado lo stesso, ci trovo il modo migliore di riempire il mio fiato, con il vento e con l’aria salita dalle conifere più alte, senza una parola a interrompere. Occupo stanza in una pensione a circa 1500 metri e da lì mi muovo per le scalate. Non mi chiedono al mattino dove vado, ma chiedono al ritorno dove sono stato. Strano effetto di intruso mi fa conoscere quelle montagne meglio di loro che hanno impieghi in valle e poco le frequentano. Vado anche con la pioggia, mi piace che ne basta poca a svuotare anche i sentieri. Una volta scrivevo una storia di montagna su un anziano camoscio maschio. Scalavo e mi portavo dietro il quaderno, caso mai un pensiero venuto da fuori si fosse intrufolato nel cranio. Ho notizia personale che le idee vengono da fuori e non da dentro. Arrivai su una cima e vidi a venti metri un grosso camoscio solitario, seduto. Mi vide e non si mosse. Mi sistemai su una pietra e scrissi qualche pagina. Rimase al suo posto. Non mi è capitato di nuovo di stare così vicino a uno di loro. Doveva succedere proprio nei giorni che stavo raccontando l’ultima estate di un re delle montagne. Mi alzai per scendere, stava ancora lì. Doveva essere stabilito un appuntamento lì, su una cima che non ho più salito. Ammetto di prendere rischi da solo in montagna, ma sono festivi, voluti, sfiorando la bellezza. Mi fanno da contrappeso ai rischi obbligati durante gli anni di lavoro manuale, quei rischi che rientrano nella casistica di incidenti sul lavoro e che sono invece una continua aggressione alla incolumità e alla salute. Erano obbligatori, o quella mansione o fuori,intorno c’ era un’altra specie di vuoto. In montagna pareggio. Perciò il mio sentimento è la gratitudine per il lasciapassare ottenuto, che non è uno skypass acquistato ma un dono ricevuto del quale sono certo solo a fine di giornata. |
Grazie Bibi, oggi ho scalato con Romano Benet e Nives Meroi, era nuvoloso, deserto, su misura. Buon resto di estate,erri
Che belle parole soffici, da vacanza. La Grecia è stupenda d’estate; l’ho fatto anch’io tanti anni fa il tentativo di sdraiarmi sul tetto di una casa, a Santorini… solo che non era d’una casa, era il tetto di una chiesa ortodossa; il parroco ci ha urlato qualcosa che grazie a Dio non potevamo tradurre, e via. Avremmo dovuto dormirci sopra, non c’era posto da nessuna parte: troppi straccioni italiani con zaini avevano minato l’isolotto. Anch’io ho provato ad ammucchiare estati, ma sfuggono tra le mani. Alla fine il mucchio più consistente che mi rimane delle stagioni vissute è fatto di foglie autunnali e di neve…e vabbuo’, sto a Torino… 🙂 Se avrò tempo, modo e altre estati ancora però mi piacerebbe fare un’intera stagione estiva, proprio la ‘villeggiatura’ come si faceva tanti decenni fa (per chi poteva ovviamente), in un posto tra campagna e mare. Perché la campagna d’estate è strepitosa…con tutta quella roba che cresce, il silenzio feroce del sole sui campi, quella sensazione di tempo fermo. E poi il mare, da andarci al mattino presto, ficcare il naso nelle barche dei pescatori che rientrano; e poi alla sera, quando tutti tornano a casa stracotti e stanchi, io me ne starei a prendermi i raggi obliqui e caldi, fino a vedere il cambio di manto e di turno del cielo.
L’estate in montagna invece: mai fatta! Ridicolo, se dico di vivere a Torino, con le montagne sulle spalle… eppure è così…però, anche quella la metto in conto futuro. Devo concedere qualcosa a ‘ste pietre che mi guardano da lontano da troppo tempo… tutta colpa delle vertigini 😀 . Però, capisco il discorso di ‘pareggio’, di vivere l’estate a pareggio delle stagioni che son state vissute con fatica, di ‘scambiare aria’. Una cosa però: il rischio è proprio necessario? io credo di no. Facciamo un patto: io la smetto con l’eccessivo camminare ( ho un lieve disturbo all’anca sinistra per colpa della mia passione a camminar tanto, scrivendo mi serve), tu la pianti con i rischi inutili ad arrampicare da solo. Non è necessario rischiare, quando si è già sperimentata una passione. Si cerca di viverla in altro modo, salame. Smuack.
Annodata, se non alla tua vita, alle tue parole.