Seduti. Seduti e concentrati nel nostro lussuoso mezzo metro quadrato scelto per tornare a casa, o forse neanche. Ad ogni modo facilmente seduti con la testa china sulla lettura di uno o l’altro quotidiano. Da una pagina di questi riesco a leggere: “La caccia al nero sui treni per l’Austria”. Pochi i profili che si perdono attraverso la finestra. Seduti e zitti, nessun commento, nessun sorriso, niente smorfie per le notizie acquisite. È l’indifferenza. Così occupiamo il nostro posto acquistato oppure no, meritato o nemmeno, logico nella pretesa per diritto di cittadinanza altoatesina, italiana, europea. Eppure nessuno ci chiede se davvero siamo tutto questo, quanto lo siamo davvero, a nessuno importa. Sarà che la pelle bianca è talmente evidente che non c’é bisogno di certe interrogazioni? Oppure le scarpe di marca, o forse il nostro diritto alla libertà composto e senza timore dentro al documento sicuro che teniamo in tasca? Così rimaniamo seduti. Ogni tanto la testa annoiata si alza. È la nostra stanchezza civile che vuole capire se tutto intorno è a posto, lo sguardo di sfuggita ai pochi rumori intorno. Pochi rumori, sì, perché anche i cittadini che vengono dalla Siria, dalla Nigeria, dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Ghana, fanno poco rumore o meglio: non ne fanno proprio. Ogni tanto passano per cambiare vagone, per garantirsi la sicurezza di non incontrare chi fa la guardia. A loro. In questi ultimi mesi solamente a loro. Mi è successo che ho incontrato lo sguardo di due chiaramente minorenni, che di loro unico possesso tenevano in mano il biglietto per Monaco. Lo mostravano alla polizia, l’hanno mostrato anche a me, che ero lì vicina a loro, pronta per scendere alla stazione di Fortezza. Il loro silenzio, gli occhi spalancati dalla stanchezza, dalla paura e dalla fame. Siamo scesi dal treno insieme. Io bianca e senza biglietto, perché troppo stretto il tempo a Bolzano per farlo, nessuno me lo ha chiesto il biglietto. Tesoro immenso di sopravvivenza che a loro due è stato reciso. Sono andati via, unica compagnia due divise, il loro dovere indossato da due uomini che altrimenti avrebbero augurato loro buon viaggio. Hanno mostrato il biglietto anche a me. Non so chi di noi era più sconfitto. Ho visto in quei pochi minuti la speranza di poter passare le Alpi. Ultimo ostacolo dopo la traversata del Sahara. Dopo la detenzione in Libia. Dopo il viaggio su gusci marci attraverso il Mediterraneo. Se tutto ciò non è documento abbastanza, lasciapassare valido per lasciarli concludere un viaggio tra vita e morte? Loro possono ancora farlo. Troppi altri non più.
Roberta Dapunt
Questa descrizione della Dupont, fotografia che coglie l’insieme e il particolare, che mette sul fatto, lascia una traccia di piede nudo sul cuore. Mi strappa dalla mente così, come per associazione di angosce, un passo di “Non ora non qui” che leggo. Nella mia infanzia i bambini piangevano il male. Raccoglievano colpi che un fisico adulto non reggerebbe, sia per la sproporzione della forza usata, sia per la frequenza. Piangevano e a volte quel grido non bastava a costituire tregua e continuavano i colpi sotto il disarmo del pianto. Mi fermavo con gli occhi sbarrati, al di qua del muro, aspettando che finisse, che per favore smettesse, mentre in gola mi veniva l’impulso di gridare anch’io, di urlare insieme, come fanno gli asini, i cani. Mi chiudevo la bocca dietro i muri.
la differenza che c’è e non c’è e il biglietto dato per scontato. BRAVA LA POETA