Il Museo di Capodimonte ha trasferito quest’anno 70 suoi capolavori al Louvre, un trasloco di Napoli a Parigi. Ho avuto il compito di scrivere per il catalogo dedicato all’occasione e domenica 19 novembre ho svolto una conversazione all’Auditorium del Louvre con la giornalista Olivia Geisbert.
Ho parlato di miracoli.
Sono eccezioni, guarigioni inspiegabili, salvezze impossibili da pericoli, colpi di rara fortuna. Sono così fenomenali che il verbo che li annuncia, grida: si grida al miracolo.
Anche in luoghi dove se ne producono molti, Lourdes per esempio, si tratta di singoli casi unici.
A Napoli esiste invece il miracolo replicato a scadenze fisse. Lo squaglio della reliquia sanguigna di San Gennaro, tenuta sotto vetro, deve prodursi nei previsti giorni. I ritardi sono mal tollerati dal popolo dei fedeli riunito per l’occasione e considerati segni di cattivo augurio.
A Napoli il miracolo è iscritto al calendario. Altre sei reliquie sanguigne si aggiungono alle liquefazioni periodiche del santo principale. Una di queste, quella di Santa Patrizia, ha il record di frequenze: ogni settimana, il martedì.
Questa concentrazione di miracoli unica al mondo fece dire a un visitatore del 1600 che Napoli era “urbs sanguinum”, città dei sangui. Non è un’esclusiva: la stessa definizione si trova riferita a Gerusalemme nel libro del profeta Ezechiele.
Nello stesso libro trovo un verso che mi fa di nuovo riconoscere Napoli. Di Gerusalemme assediata il profeta scrive: “Questa città è una pentola e noi siamo la carne”.
Napoli è anch’essa marmitta per i suoi abitanti, piazzata presso il forno a cielo aperto del Vesuvio.
Per questi suoi misteriosi connotati Napoli è leggendaria.
Sintomo della sua leggenda è la persona che la visita e partendo avverte che la città resta segreta anche quando sussurra al suo udito una rivelazione.
A Napoli il Miracolo ci dà appuntamento. L’unico posto al Mondo. Di Dio, la pancia. Le viscere. Soffre di esofagite da reflusso e si, di ulcera. Una schifezza, insomma. Come me. A Napoli Dio s’offre.
Grazie, caro Erri.
Teresa Ciulli