Natale è festa per molti, e per degli altri è esilio. Sono i lontani, oltre le serrature, sigillati.
Ricevo da Antonella Bolelli Ferrera “Atonement”, un libro di frammenti presi da pagine di persone detenute. Ne è compositore e raccoglitore Salvatore Torre, con più di mezza vita imprigionata. È un’antologia tolta dal macero con un solo riscatto, una risorsa: mettere le esistenze per iscritto.
La sorpresa di di chi prova a scrivere è che una pagina possa contenere tanto tempo scaduto. Come possono dei segni scritti a penna su una carta, dei simboli in forma di parole, riuscire a far raccolto? Potenza del vocabolario sommato a effetto del regime carcerario, ultimo posto dove si scrive ancora a mano, su pochi fogli che poi possono uscire, con il lasciapassare di un’affrancatura. Le lettere sono parole che passano oltre i muri, libere per natura.
La sera di Natale si andava sul Gianicolo a gridare gli auguri ai compagni chiusi dentro Regina Coeli, edificio che sta sotto l’affacciata del colle. Si chiamavano i nomi, scambiandosi i saluti, finché non arrivava la pattuglia. Si restava, perché non ne bastava una a mandarci via. Poi avveniva identificazione e la denuncia per schiamazzi notturni. Era il meno in quei tempi, ognuno di noi era segnato e iscritto all’albo di questura dei disturbatori.
Coperto dal nostro numero, anche qualcun altro approfittava per mandare un saluto, una raccomandazione al parente rinchiuso. Si faceva a turno con le grida.
Un verso di Anna Akhmatova: “E il colombo della prigione gorgheggia da lontano”. Faceva la nostra stessa cosa, mandare voce oltre le sentinelle e le barriere.
Ai finestrini di Regina Coeli ci sono le bocche di lupo, che negano la vista dell’esterno.
Chi ha famiglia paga la penitenza doppia per Natale, la sua e quella dei suoi. Noi ci sentivamo una larga famiglia
composta di coetanei, da non lasciare soli per la festa.
Dal libro ricevuto riporto questa frase: “Ancora non lo sai, ma un giorno dirai: la mia cella”.
Non è quella di un’ape.
[Piacevolissima sorpresa dopo aver messo a fuoco la citazione stampata sulla mia tovaglietta in una pizzeria del mio paese… Non sarà in sintonia con il post ma con il buon momento condiviso, questa: “Sono successi buoni incontri a forza di andare oltre mare: la patata d’America ha trovato l’olio d’olive e il pomodoro è finito sul grano” (Erri De Luca)]
Ci sono celle e celle; ricordo un cane, l’unico a dare ad una cella il significato di casa ed il suo padrone, l’unico per cui la convivenza con la parola aveva un senso soltanto in quella casa. L’avesse incontrata fuori di metafora, non l’avrebbe riconosciuta: fuori di sé, invece, tutte le celle sarebbero state uguali, se il suo cane non avesse dato al tempo scaduto la stessa scansione del presente e dentro, oppure fuori a piacere, non gli avesse dato attenzione e la giusta premura di uno sguardo alle impercettibili, ma solo agli estranei, sfumature di chi fugge improbabilmente verso toni più liberi, anche se senza senso, per poi tornare indietro a farsi visita…
Dunque ci sono celle e celle. E abitudini che fanno presto soprattutto nel diventare parte di un tutto che nessuno chiamerebbe essere umano, anche se a guardarlo bene… Eppure si è mosso, un attimo lì e poi là l’ho visto. In rivoluzione. Perché, solo dopo la necessità di parola, la libertà di pensiero cessa di tormentare l’anima.
Spero non sia scaduto il tempo per degli auguri di natale sinceri.
Grazie grande Erri.
Auguri a Erri e a tutti gli amici del blog.
Grazie Erri per questa connessione sentimentale che sai stabilire sempre con chi lotta e patisce le conseguenze dell’impegno civile. Un abbraccio che superi ogni muro. gigi
Grande Erri De Luca racconta in questo testo una fronn’ (‘a ’fronna canto utilizzato come comunicazione con i detenuti. I parenti, gli amici o l’amata, intonavano, infatti, delle “fronne” per comunicare, al carcerato notizie o messaggi d’amore): un saluto o un augurio oltre l’isolamento di muri e sbarre.