Tra i pittori che ammiro c’è Chagall, Marek diventato Marc. Volle dipingere fin da bambino, ma era povero, ebreo, in una cittadina dell’impero Russo il cui nome è Vizebsk, da noi scritto invece Vitebsk, in Bielorussia.
Nei suoi diari si leggono i tentativi di apprendere, fin dall’inizio contrassegnati da uno spirito critico e da una volontà d’indipendenza.
I suoi primi lavori retribuiti furono delle immagini pubblicitarie di botteghe. Scrive: ”Era piacevole vedere oscillare al mercato sulla soglia di una macelleria o di un negozio di frutta, le mie prime insegne”.
Fu la sua prima esposizione, all’aria aperta, anonima.
Il suo apprendistato proseguì a San Pietroburgo, a Parigi, poi in America da profugo di guerra. Durò a lungo.
Credo alla necessaria e lenta approssimazione dell’artista alla sua arte. Non credo alla lusinghiera scorciatoia del talento, che invece frena, arresta lo sviluppo con l’illusione di possedere un dono. Si possiede invece una vocazione che può coincidere con la più sottomessa devozione all’opera, come fu per Cézanne.
Il cinema italiano del dopoguerra raggiunse l’eccellenza grazie alla lunga esperienza di teatro dei suoi protagonisti.
In poesia si danno caso di eccezioni fulminee, come Arthur Rimbaud e Dino Campana, ma a costo della loro deriva esistenziale.
Oggi l’accesso immediato alla visibilità tramite lo schermetto illuminato annulla l’avviamento progressivo all’espressione artistica. Compiace e inganna su se stessi frastornando con qualche provvisorio gradimento.
Ci vuole tempo e paglia per maturare nespole, afferma un proverbio del sud.
Serve anche prendere il largo. In Latino spatium, spazio, indica sia la misura di un luogo che la durata di un tempo. L’arte di Chagall è stata riempita da questo doppio spazio.
Succede che: il talento si inflazioni di egocentrismo, tipico della giovinezza, si alimenti compulsivamente di sfide per avere riconoscimento, per poi nascondersi se non assecondato e ricomparire, all’improvviso, quando carta, penna, pennello, attrezzi ed occhiali non sono a portata di mano e nemmeno se stessi, nel frattempo divenuti rabdomanti di ispirazioni…
Poi, il talento compare sullo sfondo e lo scopo diviene più chiaro… E si chiama carattere.
Caro Poeta, mi sono sempre chiesta com’è che funziona per altri quella cosa che chiamano ‘talento’ o ‘Arte’. Guardandomi attorno però, sono arrivata alla conclusione che sia una forma di follìa, di quelle buone, che non ti lasciano vivere una vita sciapa e soffocata da una quotidianità voluta da terzi. In alcuni si manifesta quasi subito, come per Mozart, che si mise a suonare a 4 anni da solo osservando i fratelli che sbuffavano davanti al maestro di pianoforte. Per altri l’arte è una sorgente che va scavata con le mani, sai che c’è e la senti scorrere, ma ci vuole l’impegno personale per cavarla fuori. Poi ci sono quelli che ce l’hanno e la soffocano, perché a volte un dono può anche spaventare, un po’ come le stimmate per i santi. Sono d’accordo con te però sul concetto che qualsiasi talento o arte si possieda vada coltivato e arricchito, e che non esiste il genio di per sé ma esiste l’individuo conscio delle sue possibilità che poi mette a frutto con la pratica dovuta. Chiunque possieda quella follìa ha bisogno di una visione tridimensionale del suo viaggio però, non solo un punto di partenza e di origine, ma di una dimensione che tu hai chiamato ‘spazio’, riferendoti al tempo che serve a far maturare un valore aggiunto, e che io chiamo giudizio: sono gli altri a dirti se la tua arte ha valore, da lì non si scappa. Per quanto ci possano piacere le cose che facciamo, un pubblico (non importa quanto grande o erudito sia) un artista lo deve avere, assieme alla possibilità di proporsi. Molti artisti sono stati riconosciuti tali solo dopo la morte, e questo è triste … per tutta la vita, a chi non capita mai un applauso, rimane il dubbio di esser stato preda di una follìa inutile e solitaria. Questo è il grande rischio di tutti gli artisti, quello di non sa pere a che punto è il suo ‘stato dell’arte’ tra gli uomini. Ogni artista sa questo, ma solo quelli veri se ne fottono e insistono nonostante le porte in faccia e le critiche meschine. Lo spazio che nessuno gli dà l’artista se lo prende comunque, perchè quando la Musa ti prende per mano vuol dire che ti ha scelto tra migliaia di anime, e non si può fare a meno di seguirla. Un bacio Poeta, ti rivedo a settembre allora <3 <3 <3
Nella lotta di Giacobbe con l’angelo, Chagall esprime il significato di “talento”, quel tormentato rapporto con il sussurro divino interiore, quella reazione etica individuale che induce a fare scelte anche contro il codice morale collettivo;
quella chiamata che sospinge verso un centro, unico mezzo per raggiungere quella patria di elezione delle anime affini, a volte isola remota, scollegata dalla coscienza;
quella vocazione che matura, si avverte nel pantano della sofferenza, dell’esperienza che le risorse della sola mente non possono dare;
quella “logica colorata”, dice Cèzanne, alla quale il pittore non deve che obbedire per smascherare tutte le proiezioni che provengono dalla logica della mente, causa di ristagni di energia utile alla trasformazione…
… E utile a raggiungere quell’isola, che diventa sempre più remota nello spazio.
Non riesco ad aprire il blog da leggere