Quando incontro persone detenute in prigione non ho desiderio di sapere per quali accuse si trovano rinchiuse né per quale durata.
Condivido qualche ora dei loro giorni e il mio tempo si accosta per un poco al loro.
Hanno letto un mio libro, espresso il desiderio di incontrarmi, espedito le procedure necessarie. Eccomi con loro.
Carcere di Reggio Emilia, sezione Orione, ospita persone transessuali. Hanno aderito a un programma che si chiama Pretext, sviluppato da una docente dell’Università di Harvard, applicato per la prima volta in Italia.
Si parte dalla lettura di un libro.
“Lo poniamo al centro del nostro cerchio e lasciamo il più possibile libera la nostra creatività”.
L’impatto dei singoli contributi viene valutato sulla base del miglioramento del benessere mentale e delle relazioni sociali. Le persone coinvolte possono a loro volta diventare organizzatrici di altri cerchi con al centro un libro.
Un libro in prigione diventa un viaggio a riscoprire se stessi, reagendo alla lettura con i propri ricordi, anche quelli addolorati, con i propri spunti di scrittura. Metterli nel cerchio li libera dalla segregazione interiore. Incontrano i ricordi, le scritture di rimbalzo delle altre persone coinvolte alla pari.
Con tutte le immaginazioni che mi hanno permesso di scrivere molte storie, neanche un poco riesco ad avvicinarmi alla fatica di queste persone che hanno dovuto lottare con se stesse e col mondo per modificare forma e sostanza del proprio corpo.
Ma almeno, da ospite di quel loro tempo, ho condiviso alcune ore d’intensa uguaglianza.
Uscendo dalla sequenza di porte blindate dello stabilimento ho saputo che attraverso quel programma le persone partecipanti in cerchio salvavano parte del loro tempo di pena, partecipando a una ricostruzione di se stesse.