Tornano i profughi siriani dagli anni di esilio e di accampamenti ai confini, dispersi tra le nazioni.
Tornano in lunghe file alle frontiere, uguali a quelle della fuga, opposte per senso di marcia.
Sono passate tre Olimpiadi e mezza, quattordici anni, il tempo di far uomini i bambini. Le loro stature cresciute in campi profughi non sembrano diverse, ma lo sono. Mancano centimetri alle vertebre tenute sotto oppressione.
Tornano per rovesciamento della malora in provvidenza, il tiranno abbattuto all’improvviso.
Hanno conservato i documenti scaduti e le chiavi di serrature arrugginite.
Tornano dove niente esiste che appartenga loro, tranne la lingua, l’aria, il cimitero e la prigione vuota.
Sono cresciuti gli alberi piantati nel giardino, insieme ai rovi e alla natura indifferente,
Toccherà sgomberare formiche e ragnatele, c’è molto da fare nel verbo tornare. C’è molto da dimenticare,
Sono il rimasuglio da cui ricresce un popolo.
Avanza il primo inverno ad avere di nuovo diritti.
La storia è volubile, disarciona le statue a cavallo, fissa un termine alle attese e alle preghiere.
Il loro “Così sia” qualche volta succede: e così è.
sans commentaire, tout est dit, comment nous offrez- nous des mots si justes?