Sono uno spettatore di cinema.
Da bambino il grande schermo della sala ingigantiva anche me. Diventavo comparsa nelle scene, coinvolto nei pericoli, morivo cento volte, come negli incubi notturni che addestrano a risorgere.
Mi abituavo alle resurrezioni. Dopo ogni morte vera delle persone intorno, immaginavo che rispuntassero fuori in qualche antipodo del mondo.
Il cinema mi ha spalancato gli occhi. Succede la stessa cosa alla prima coppia umana quando assaggia il frutto spinoso della conoscenza, che per me è un fico d’India.
Lo schermo illuminato mi ha allargato i sensi, dalla pelle d’oca alle lacrime, all’improvviso buffo che mi faceva ridere.
Essere spettatore non è farsi versare un contenuto dentro il recipiente di se stessi. Invece è farsi chiamare fuori dal proprio recipiente, stappati per confondersi con quello che sta succedendo davanti e dentro il buio della platea.
Un gran progresso è stato il divieto di fumo: agli spettacoli serali per l’aria viziata le immagini erano virate seppia.
Ho amato il biancoenero più del colore e la più intensa fisicità dei film senza sonoro.
Oggi l’industria è in recessione, Los Angeles si svuota di sceneggiatori. Nuove tecniche sopprimono personale creativo.
Continuo a credere nel cinema. Così come il libro elettronico non ha sostituito quello di carta e ossa, così il cinema fatto coi ciac non si farà sostituire da quello fatto col clic artificiale.




