Danilo De Marco è un fotografo che va ancora a pellicola, in bianconero, poi sviluppa e stampa nella camera oscura alla luce di una lampadina rossa. Dice che il digitale gli cancella la grana dall’immagine.
Una sua mostra a Udine esponeva facce ingrandite di partigiani invecchiati. Chi di loro arriva all’età dei nonni porta la storia incisa sulla mappa del volto.
Danilo mi fa leggere una lettera ricevuta in seguito alla mostra. Gliel’ha scritta una giovane donna di trent’anni. Suo nonno è stato partigiano, ma lei non ha fatto in tempo a riceverne le storie.
Nelle facce ingrandite della sala, scrive, si è sentita in famiglia, da nipotina in visita. Si è documentata su di loro e sul nonno, prigioniero nel campo di Dachau. Ci ha ragionato, ci ha rimuginato e poi ha voluto fare una mossa che definisco religiosa, nel senso letterale della parola, un atto simile a un nodo. Si è fatta tatuare sul braccio il numero da internato del nonno, all’interno di un triangolo a punta rovesciata, uno dei simboli cuciti sulla casacca per identificare i gruppi di detenuti.
“Quando guardo quel numero nella mia pelle e poi vedo i miei occhi riflessi allo specchio, mi sembra di avere il nonno con me. Ne vado fiera, come se portassi un peso e una medaglia allo stesso tempo”.
Così fa uno che decide di iscriversi a una storia precedente alla sua nascita, se ne accolla il carico e lo manifesta con fierezza. Lei ha voluto dichiararsi erede di una storia, un lascito più duraturo di una disposizione notarile.
I tatuaggi erano usanza di detenuti e marinai per ispessirsi la corazza. Oggi sono la diffusa espressione di un desiderio di unicità affidato alla propria superficie. La pelle è carta bianca per un’illustrazione indelebile.
Il numero di schedatura di un campo di concentramento non ha niente di superficiale. Affonda il suo motivo come un ancoraggio sul fondale. Chi le chiede cosa sia quel tatuaggio, impara dalla risposta a riconoscere subito chi ha di fronte.
Ho conosciuto alcune di quelle facce fissate appena in tempo da Danilo. Non porto tatuaggi sulla pelle, ma ho nel palmo di mano il calco lasciato dalla stretta di chi ha impugnato armi per battere oppressione e dittatura.
La storia che mi riguarda è stata fatta dalle mani.
Nella prefazione alla mostra di Danilo nel 2015 scrissi che una persona può lasciare una sol cosa che continuerà ad appartenergli: un buon nome, un bene che si allarga ai discendenti. Il nome è l’eredità.
Dalla giovane donna della lettera imparo che si può lasciare anche un numero, da esporre con orgoglio.
Foto di Danilo De Marco
Caro Poeta, alla mia bella età ho schivato come la peste gli aghi dei tatuaggi, un po’ per diffidenza un po’ per gli eccessi che ho visto in giro e che mi hanno dissuasa dal disegnarmi addosso qualcosa. Ma, come dire? Mai dire mai… ho la tentazione di un paio di simboli e nomi speciali per me, ma oggi è la povertà a impormi il tempo necessario per decidere cosa e chi incidermi sulla pelle indelebilmente, e forse è meglio così. La mia avversione per gli aghi non necessari poi fa il paio con la vertigine da altezza, e se sacrificio dev’essere, che sia pensato bene, no? Ne ho già troppi di segni addosso, per essere una donna, e rivelano tutti un’infanzia da maschiaccio che l’adulta di oggi non merita, ma tanto è. Si pensa mica di passar indenni negli anni senza accusar qualche colpo, alle volte? C’è chi ha culo, io no… ho tatuaggi gratis e personalizzati 😀 . E a proposito di anni che passano, bella l’idea di questo fotografo di fare gli ingrandimenti dei volti di ‘soldati del popolo’. C’è tutto nei loro volti, negli occhi. C’è la storia che non trovo nei libri… una volta scrivesti che per avvicinare i vecchi bisogna ripetere qualcosa delle loro tradizioni. Be’, certe cose sono impossibili da imitare per i giovani, per esempio il coraggio che hanno avuto nella loro gioventù, in quel tempo esatto. Ma il tempo talvolta anziché allontanare avvicina… è come tornare al paese dopo tanti anni, no? Solo dopo 30, 40 anni, ritrovi le facce e le sensazioni del posto natìo; se lo si vede prima: sfuma tutto, non si coglie l’essenza. Così è la foto dei nonni per chi la guarda dopo tanto tempo, si ricorda immediatamente qualcosa che ci appartiene. La memoria è una piazza grande, ma chissà perché tra mille facce sono solo quelle del cuore che attirano l’attenzione. Ciao poeta, fai i complimenti al fotografo, è riuscito a raccontare qualcosa senza scrivere.
Grazie Erri, oggi avevo bisogno di parole come queste, per non sentirmi sola in mezzo all’odio dilagante.