Incontro più coetanei miei che giovani in montagna. Con uno, di poco più anziano, ci si ferma a parlare. Mi racconta un episodio delle sue scuole elementari. Era bravo, ma aveva il difetto di arrivare in ritardo all’inizio delle lezioni.
Un mattino della solita mancanza apre la porta della sua aula e succede questo: tutta la classe, compreso il maestro, si alza in piedi e dice all’unisono: “Buongiorno signore!”.
Poi tutti si siedono e la lezione riprende, mentre lui va a sedersi un po’ stupito al suo posto. Per qualche giorno arriva puntuale, poi gli capita di nuovo il ritardo. Al suo ingresso la classe scatta di nuovo in piedi e insieme al maestro esclama: “Buongiorno signore!”.
Da quel giorno, mi dice, non sono più arrivato in ritardo per il resto della mia vita.
Esistevano maestri così, capaci d’insegnare una regola di comportamento con garbo e persuasione. Non fu una presa in giro, nessuna risata. Fu l’invenzione di un ossequio al posto di un rimprovero.
La scuola non trasmetteva solo una conoscenza di materie varie: impartiva un’educazione, un modo di stare insieme. Non aizzava a prevalere, chi era bravo era tenuto a dare una mano a chi stentava. Non istigava a comportarsi da concorrenti di quiz a premi, pronti a sfruttare l’errore degli altri, ma a stare in una società di uguali provenienti da condizioni differenti. Quelle aule tenevano insieme i poveri e gli agiati, permettendo la prima cultura di massa. La scuola era l’officina della società, consapevole di essere la via maestra della promozione sociale.
Ringrazio il compagno dell’incontro per il suo ricordo. Qui manca per mio deficit il suo nome. Paola ricorda quello di sua moglie, Imelde, un nome di altri tempi, di quelli che oggi s’incontrano in montagna.
Erri
Ricordo un maestro che, mettendomi davanti ad una espressione di matematica, mi disse: “Cosa vedi?” Mi precipitai a risolverla, pensando fosse quella la risposta che voleva da me. Notò che ero arrivata alla soluzione per una via più lunga e che non avevo studiato gli ultimi assiomi. Mi mise al mio posto,decretando l’inizio del mio innamoramento per la matematica, con questa sentenza: “Per qualcuno può sembrare ovvio ciò che non lo è per altri. Per questo la conoscenza è libera: perché scava se c’è da cavare sangue da una rapa”.
I risvegli sono così.
Non ho ricordi altrettanto belli dei miei primi anni sui banchi di scuola, questo – seppure estraneo alla mia diretta esperienza – mi ha restituito un barlume di fiducia nell’istituzione. Esistono isole felici, insegnanti che fanno questo mestiere ancora per vocazione, preferendo essere guide piuttosto che educatori che snocciolano assiomi dall’alto di una cattedra. Ma se pesco molto indietro nel mio passato, ho il vago eppure dolcissimo ricordo di una suora missionaria che ha aiutato la mia mamma disperata a togliermi il vizio del ciuccio. Avevo quattro anni e quanttro ciucci diversi, tutti appesi al collo a una collanina di nastro cui non volevo separarmi mai come Linus con la sua copertina.
Io di preciso non so cosa mi abbia raccontato e soprattutto in che modo sia riuscita a farlo comprendere a una mocciosetta di quattro anni.
Dai racconti di mia madre so soltanto che un giorno ho tolto la mia collana di ciucci buttandola via tra i rifiuti. Alla richiesta di spiegazioni da parte di mia madre ho semplicemente risposto: “ora sono una piccola donna”.
E’ raro scrivere e parlare poco e avere scritto e detto tutto quello che serve a capire. grazie Erri
La critica di Luci ha zittito tutte… O forse il motivo del silenzio è un altro.
Un momento di autocoscienza merita il silenzio. Ma la mente autocritica a volte toglie errori amputando la spontaneità.
nina potresti almeno rileggere quello che scrivi se poi vuoi addirittura farlo in rima quasi baciata
Scuola eĺementare aula grigia
Scatola chiara e oscura
Da cui uscire e entrare
Col corpo e con la mente
Liberamente
Il mondo era altrove
Banchi sudati da altri non da me
A dir la verità da quelli fui anche cacciata
E alla fine di ciò sempre sarò grata
Alla maestra che insegnava col passo
Dell’oca a chi attenzione ne dava poca
La vita era altrove
Nessun buon giorno o buona sera
Né ironia né fantasia
Io ero altrove
Dal flauto magico di Mozart
Quando penso alla scuola primaria mi si affollano alla mente tante di quelle facce che quasi faccio l’impasto di mille vite vissute tra un’aula e l’altra. Per varie vicissitudini familiari io e mia sorella abbiamo fatto conoscenza anche di scuole rette da religiosi; lì l’impatto della rigidità clericale faceva a sberle con il clima più permissivo delle aulee civili, e sicuramente non c’era nessun ‘Buon giorno signore’ ironico in caso di ritardo. Tra tutte le maestre elementari però ce n’è una che somiglia tanto a quel maestro e che mi piace ricordare con affetto, Antonietta Grieco. Anche lei usava parecchia ironia con l’animo turbolento della mia generazione. A quelli che si distraevano dalla lezione parlando tra loro e alzando il tono di voce noncuranti della spiegazione, diceva: “ Tizio e Caio, gradite un caffè? Un tè? Siamo al bar, buona conversazione! Possiamo unirci?”. Come il maestro di cui sopra usava non umiliare nessuno, non dava note ne’ chiamava alla lavagna per distogliere con brutalità l’elemento di disturbo dal gruppetto di sfaccendati. Aveva una pazienza da Giobbe con noi, altro che le bacchettate delle suore o le tirate di orecchie fino dietro la lavagna, punizioni inutili per qualsiasi spostamento di sedia che invitavano poi a ritorsioni certe (almeno da parte mia).
Doveva essere lungimirante e illuminato quel maestro, ‘Buongiorno signore’ è il Pernacchio di Eduardo riadattato alla bisogna, atto a ferire nell’orgoglio qualcuno che ancora non ha ben chiaro che c’è una lezione da imparare. Un’ottima intuizione portare al sorriso quello che in realtà è uno schiaffone morale.
Ciao poeta <3
“Buon giorno, signore” era anche l’ossequio con cui mio nonno usava risvegliare ai suoi doveri, nell’azienda agricola di famiglia, mio padre, ancora ragazzo, che poltriva ancora dopo una notte brava con gli amici.
Con lo stesso ossequio mio padre ha salutato alla buon ora noi figlie, qualunque fossero le nostre abitudini notturne. Qualunque fosse il giorno.
Ma se mio padre nella carriera militare, io ho invece appreso la continuità dell’insegnamento dell’importanza del rispetto degli orari grazie alla puntualità con cui il destino ha sottolineato la mia presunzione a voler controllare il tempo: un incrocio, un incontro, e che palle!, fossi passata dopo invece no, no…
Comunque si passa, senza diplomi che testimonino la data e l’ora dell’evento. Che dicano pure che ho vissuto nella parte di chi è stato invidiato per la sua caparbietà, ma anche nella parte di chi ha rinunciato ed ha perso anche il treno successivo…
Di quale scuola stavate parlando, scusate?
Da un’altra parte,un’altra Paola ,brava ,intelligente e puntuale,non riusciva a finire le medie.
Fuori ,dalla scuola,una società che amava poco i suoi figli più poveri.