Era l’inverno ottanta-ottantuno nella città di Napoli spaesata dal terremoto, in un cantiere dell’ emergenza edilizia, paga venticinquemila al giorno. Avevo trent’anni e una storia di dispersi alle spalle, una folla, anni di lotta, di nomi e niente da voltarsi indietro.
L’avresti fatto pure tu di cercare alcol nei libri, pagine di malora per ubriacarsi un poco nell’andirivieni del cantiere. Già molti dei miei affondavano gli aghi nelle vie venose, perché il vino ammazza troppo piano e avevano fretta. Io non sapevo fare come loro, avevo il corpo troppo stanco a sera per vacillare sopra qualche pensiero, qualche nostalgia. Però mi servivano pagine d’acquavite da tenere in pugno come bicchieri e andare giù di testa su di loro fino al capolinea. Celine, un bastardo randagio da prendere e sbattere nel cestino alla prima schifezza, 1′ avevo raccattato da un lenzuolo a terra, vendita di marciapiede, sparso tra libri usati.
Viaggio al termine della notte, vediamo un po’ che ne sai tu, Louis Ferdinand, di questo carro bestiame che ha preso noi per carico, che ci ha dispersi e divisi in puttane e prigionieri. A trentanni mi pareva di saperla già tutta la vita, cercavo solo un po’ di compagnia. Me la potevo prendere dai libri, me la potevo prendere con loro. Ne ho buttati nella spazzatura, quanti, in pochi passi dal lenzuolo al secchio, costavano niente, li aprivo e dopo qualche pagina: ma vattene. Quale pacco di pagine poteva resistere a un lettore che voleva ubriacarsi e fare a pugni coi rimasugli usati delle loro scritture? Tocca a te Louis Ferdinand, questi sono i tuoi duecento passi, da qui alla fermata dove c’è il mucchio di monnezza che ritirano quando pare a loro.
E invece niente: me lo sono letto fino all’ultima riga e solo allora l’ho buttato sulla spazzatura, ma per amore, per non dover più dividere con un altro me stesso, più in là negli anni, la tentazione di una rilettura.
Non voglio più sapere perché quel libro ha retto la mia malora nell’inverno, nel cantiere e nelle dissenterie della città che si svuotava in strada. Non voglio più sapere niente del me stesso di allora e un libro serve proprio a questo, a cancellare con la scrittura i giorni. «Che tieni dentro la borsa, la Bibbia dei protestanti?», mi chiese un vecchio operaio quando a mezzogiorno mi cadde fuori dal sacco il libro, mentre prendevo la gavetta con i maccheroni. E sì, mo’ ti rispondo: se erano capaci di cavarmi fuori un accidente di frase tra il buongiorno e la buonasera. Muto, da quando uno mi aveva detto lì a me, proprio a me: «Tu nun sì napulitano». Però ancora mi ricordo la voce a mezzo sfottere: «la Bibbia dei protestanti?». Che io fossi uno da lasciar perdere l’aveva capito, mi aveva perciò fatto «protestante». Poi c’era pure un libro, un operaio con un libro doveva essere un sovversivo, allora era chiaro che doveva trattarsi della Bibbia di quelli come me. Sono passati almeno quindici anni, quello se campa si sarà scordato di me, ma io non di lui, per quella frase. Da allora in testa mia il «viaggio» di Louis Ferdinand ha per sottotitolo la
Bibbia dei protestanti. Protestava niente Celine, era invece la voce di una gioventù scampata alla mattanza del fronte tedesco, scampata senza giustificazione, non per viltà, non per virtù, solo per uno schifo di caso.
E non aveva più pace né posto e sbandava tra l’Africa, i malati e le donne e il fondo di rancore di non provare più odio. Celine l’aveva scritto e aveva suonato il piffero a tutta la banda dei suoi coetanei scrittori e se li era portati dietro tutti fino a buttarli a mare, come i topi di quello di Hamelin, i libri degli altri. Il suo resisteva tra le mie mani sporche, lavate sommariamente, strappando pagine nel girarle perché sui polpastrelli é sul palmo non sentivo più niente. Solo Louis Ferdinand era adatto a me in quei mesi, solo il suo viaggio faceva compagnia al mio andirivieni. E dopo non ho letto più niente di suo che valesse quel tono di vita avvelenata, rubata agli altri per il solo fatto di essere sopravvissuto, di vita residua sopra un mucchio colossale di ventenni annientati nei fossi dai gas e dalle schegge di ferro.
“…l’ho buttato sulla spazzatura, ma per amore, per non dover più dividere con un altro me stesso, più in là negli anni, la tentazione di una rilettura.”…
Non è un caso che siano i libri a scegliere il loro lettore: caro Erri de Luca, sono qua per dirle che è stato un vero piacere trovare in un cartone il suo “In alto a sinistra”. E’ stato un pezzo di pane che non potevo lasciare lì a biodeteriorarsi in pagine bianche, qualcosa che non fosse cibo per la mente. Così apprendo che:…”Ben presto non ci saranno più che persone e cose inoffensive, pietose e disarmate tutt’intorno al nostro passato, niente altro che errori diventati muti”. E capisco cosa significa far ritorno a casa.
Sono d’obbligo saluti entusiasti.
“Un libro serve a questo…cancellare con la scrittura i giorni…”. “Bisogna scrivere ogni volta come se si scrivesse per la prima volta e per l’ultima. Dire quanto sarebbe giusto per un congedo e dirlo così bene come per un debutto” (Karl Kraus). Leggere, scrivere…Erri anela nei libri la mano aperta per cancellare i giorni e trova e nutre l’eleganza della sua scrittura.
(Sostituire nella frase di Kraus il verbo scrivere con altri verbi – leggere, parlare, disegnare,…- e uno trova cos’è l’eleganza).
Originale lettura di quel libro che inaugura non l’affermazione ma il relativo dire l’incerto della malora sicura, della conturbante franchezza che tiene insieme sentimenti alti e istinti. Tutti uscimmo cambiati dalla lavata di testa del dissacrante viaggio al termine delle illusione dell’uomo…
Sono una che legge molto, ma Celine ancora no. Lo leggerò.