Non entro in chiese e altri luoghi di culto. Spettano a chi va a svolgere una funzione religiosa, a pregare, rivolgersi, chiedere. Sono sacri per loro e non li disturbo con la mia presenza di visitatore.
In certe zone di guerra e di terremoto ho visto distruzioni di luoghi di culto. Quelle macerie mi hanno trasmesso il sentimento di qualcosa di sacro. I loro resti sparsi mi hanno spinto a un inchino interiore, un atto di riverenza. Anche un gesto: raccogliere una pietra, un frammento di altare. Ho percepito il sacro nei frantumi.
Da lettore di Antico Testamento avverto il fervore delle generazioni che se lo sono tramandato per fede, imparandolo a memoria, ripetendolo in occasioni di festa e di lutto. Hanno rivestito quelle pagine della loro devozione trasformandolo in un oggetto sacro.
Ancora oggi la distruzione di una copia che contiene il nome della divinità è risentito come una profanazione e un’offesa grave.
Resto non credente ma sento la differenza di temperatura con una persona di fede. Nella quota di dolore che non manca a nessuno, nello scandalo delle infamie del mondo, questa persona ha una domanda da rivolgere, in replica di quella di Giobbe: perchè?
Il punto interrogativo della domanda esige la presenza dell’interlocutore, più che una sua risposta.
Non possiedo quella interrogazione, non so chiedere ai frantumi.
Io non credo,ma ogni 25 dicembre entro in chiesa per salutare un vecchio amico e fargli sempre la stessa domanda.”Quando”.
Forse la consolazione di chi ha fede é di avere sempre un interlocutore, di non sentirsi mai solo. O dovrebbe essere così.
Siamo afflitti dalla “dematerializzazione” (brutta parala ma efficace in contrapposizione a “politicizzazione”): dunque l’oggetto non esiste e il soggetto esiste in quanto parte.
Il suo pensiero implica l’esistenza della realtà e, cioè, dell’universo che include la specie umana con tutte le sue dimensioni: la sacralità è questa?
Grazie Erri, bellissima riflessione per farci riscoprire a noi credenti l Essenza della preghiera.