Durante le reclusioni dell’epidemia si è dimostrata la colpa dell’architettura moderna che ha eliminato i balconi dalle facciate degli edifici.
Le persone rinchiuse nelle mura di casa non potevano uscire dal perimetro, levarsi le stanze di dosso.
Chi ha avuto un balcone poteva chiudersi alle spalle la clausura stando con il corpo all’aperto. Faceva un’apprezzata differenza.
Le facciate dei palazzi, mutilate e prive di queste sporgenze, oggi mi sembrano spettrali.
Nella commedia di Eduardo De Filippo “Questi fantasmi” l’affittuario dell’appartamento non paga il canone in cambio dell’impegno di affacciarsi ogni giorno ai vari balconi, farsi notare, per sfatare la diceria che la casa sia infestata da spettri.
Quando la suggestione gli fa credere di avvertirne la presenza, si precipita trafelato fuori sul balcone pur fingendo una comica normalità. In quel momento il balcone gli offre una salvezza.
Devo anch’io ai balconi un salvataggio. Molti anni fa dietro a una sommaria barricata cercavo con pochi altri di respingere una carica dei reparti Celere della Questura di Roma.
Stavamo per essere sopraffatti quando dai balconi del quartiere Garbatella piovve sui reparti un fitto lancio di oggetti di uso domestico. Lo scroscio fu solenne, incalzante e a suo modo musicale.
La carica si arrestò e ripiegò sparando in ritirata candelotti lacrimogeni contro i balconi dell’improvvisata resistenza.
Pur senza arrivare a questo loro provvidenziale uso improprio, qui sottoscrivo un sentito elogio dei balconi.
Sì, sicuramente elogio ai balconi per la comunicazione, la condivisione, lo scambio, l’apertura.
In questo episodio personale raccontato, come spesso accade, Napoli insegna. Mi fa pensare agli eventi delle 4 giornate quando dai balconi si è lanciato ogni genere di cosa per fermare gli oppressori.
E che il balcone non è anche il ponte tra una pulzella e la serenata di una Napoli che mai morirà?