Leggo questa frase dell’irlandese Bernard Shaw: ”Quello che puoi patire è il massimo che si possa patire sulla terra. Se muori di fame soffrirai tutta la fame che c’è stata e ci sarà. Se diecimila persone muoiono con te, la loro partecipazione alla tua sorte non farà in modo che tu abbia diecimila volte più fame, né moltiplicherà per diecimila il tempo della tua agonia. Non farti schiacciare dalla mostruosa somma dei patimenti umani, perché non esiste tale somma. Né la povertà né il dolore sono cumulabili”.
Questo pensiero rimanda all’individualità della sofferenza. Le cronache riportano le addizioni, tot decessi, tot guariti, ma ognuno di essi è un caso a parte che chiede di essere trattato come tale. A volte le cronache rinunciano addirittura al conto: “ennesimo naufragio”.
In matematica ennesimo è definito numero naturale indefinito. È il preciso contrario della vita, non riducibile a numero né all’indefinito.
Ognuno è accanitamente unico e per la durata della sua esistenza s’impegna ad approfondire la sua unicità, a non farsi mettere in un mucchio, anticamera del trattamento indifferenziato.
A riconoscere le unicità aiutano le storie, la letteratura, dove le persone, i personaggi sono individui con le loro caratteristiche, grandezze e miserie. È antidoto contro l’omologazione, non si è biglietti di una lotteria contrassegnati da numero di serie.
Per parte mia, quando si tratta di vite umane, decido di dividere ogni somma per uno. Il risultato in matematica dice che un numero diviso per uno resta uguale: non per me. Quel numero diviso per uno mi fa apparire le singole persone, la loro unicità.
“Non farti schiacciare dalla mostruosa somma”.
Perché nessuna vita è l’ennesima di una qualunque serie.
Mettiamola in questi termini: omologazione e immedesimazione, tanto cari alla politica ed ai suoi ispiratori, cioè i numeri… È facile programmare la vita di un abitudinario, lucrarci e dormirci sopra con il suo consenso: gli imperi quotidiani non si fondano su liberi cambiamenti di prospettiva di morte , né su protocolli ad personam, auspicabili se si conosce la persona e il suo “ambiente” e per poter guardare negli occhi un padre mentre gli dici: insieme ce la faremo, come fosse una dose terapeutica di autonomia da somministrare possibilmente con costanza giornaliera. Con qualsiasi mezzo. Esclusa la burocrazia.
Caro poeta, è così. Quando fai parte di una sciagura è più semplice far capo ai numeri che alle persone. Talvolta, per gusto di cronaca, qualche nome viene preso dal mazzo dei disgraziati non per render omaggio ma per far sensazione, per soffiare sul fuoco della notizia. Un nome e una faccia che rappresenti tutti, e che sia vittima più giovane o l’eroe del momento a chi macina parole per lavoro non interessa molto… e invece io ne voglio fare uno. Tra le tante persone che sono mancate in Piemonte, qui a Torino, c’è Tina. Tina aveva 91 anni , era di quella classe coriacea che a scommettere sull’età avresti perso i soldi. A inizio febbraio un femore ceduto l’è stato fatale, ancor di più il fatto di dover stare in una struttura riabilitativa e il ritardato rientro a casa. Il Covid non c’entra (dicono), i dottori dicono che si è lasciata andare… forse è così che capita quando ti riprendi da una caduta, ti rimetti in piedi ma né puoi tornare a casa né puoi ricevere visite. Esistono le morti per tristezza… lei è mancata così. Tina è tornata comunque a casa: abbiamo chiesto alla figlia di far passare il feretro sotto casa sua, accanto alla nostra, affinché il suo vicinato di cinquant’anni la potesse salutare. Una piccola processione distanziata in una piccola via di Torino ha accolto e salutato una persona, una vita che ha lasciato un ricordo. In tempi di peste e di corpi chiusi in mura, sacchi e fosse anonime la pietà di un saluto è tutto, serve a ricordarci che nessuna ordinanza ci può costringere a non essere noi stessi… Tina ha avuto quello che qui a molti altri è stato negato, il conforto della dignità di un funerale vero. So che ha gradito…Sarà un caso, ma ieri ho visto una foglia rispuntare sulla sua pianta secca di basilico, voglio pensare che sia il suo modo di ricambiare il saluto. Un bacio Erri, resistiamo anche a questo.
Aggiungerei che come si vive una unica volta, così pure si muore un giorno preciso ad un’ora precisa ed è per questa ragione che chi se n’è andato in questo periodo, come mio padre, a causa del virus o meno, ha avuto una morte diversa non tanto nel momento del trapasso ma nei gesti successivi che aiutano coloro che restano ad elaborare la perdita del proprio caro. Io qui, con mia madre anziana, senza una vera e propria cerimonia, con l’urna cineraria nel deposito del cimitero come facciamo a renderci conto che il papà se n’è andato per sempre?
Il pensare in modo problematico è il contrario del pensare secondo una logica binaria e da “primati”, quali siamo diventati frequentando assiduamente i dispositivi tecnologici e addizionando le nostre solitudini davanti alla messa in onda della rappresentazione di una frazione infinitesimale dell’essesima potenza distruttrice di questo virus.
Non dovremmo, quindi, avere paura di venire sopraffatti dai grandi numeri e rischiare l’afasia emotiva a cui tendiamo noi, “primati” individualisti.
Invece di questo salto evolutivo, sì, che dovremmo avere paura, se ci sentiamo partecipi del dolore altrui come se fosse il nostro senza aver bisogno di chiamarlo per nome. Perché, se la tecnica si umanizza, il rapporto mezzo-fine avrà un denominatore infinitesimale tendente a zero e non a 1,3… Futuro è il suo nome e sembra avere un senso, addirittura anche per un cieco che si trovi davanti ad un’opera d’arte. È sempre così incredibilmente problematico, il Futuro.
E’ così. Questi giorni che ci chiudono mi fanno capire meglio tante cose. Forse voleva dire questo Hannah Arendt, quando rifiutava il plurale generico degli uomini che abitano la terra; non “gli”, ma questo singolo, saturo di dolore, gravido di speranza, va preso in carico come unicità. E alla fine del suo fecondo percorso umano e culturale sottolinea il valore unico della nascita, del nuovo inizio (arkè).
Chissà che anche noi da questo soqquadro sociale, ambientale e mentale non riusciamo a riprendere insieme, e da soli, la strada giusta? Grazie Erri! ciau gigi e tutti