A un quiz televisivo qualche sera fa la soluzione da trovare era la parola: esami. Curiosamente per me, l’ho indovinata. Curiosamente perché sono avverso a questa forma di selezione e di ammissione, l’esame.
Nell’adolescenza mi accorgevo di sabotare me stesso durante le interrogazioni scolastiche. Rispondevo meno di quello che sapevo, anche tacevo mentre dentro di me rimbombava nel vuoto la risposta. Mi procurava una stralunata sensazione di libertà.
Nell’adolescenza mi accorgevo di sabotare me stesso durante le interrogazioni scolastiche. Rispondevo meno di quello che sapevo, anche tacevo mentre dentro di me rimbombava nel vuoto la risposta. Mi procurava una stralunata sensazione di libertà.
Dalla lingua latina viene il verbo “examinare”, che significa pesare sul piatto della bilancia. Non volevo essere pesato e sottraevo parte del dovuto. I risultati scolastici erano di conseguenza scarsi. Scontenti, i genitori cercavano di correggermi, ottenendo l’effetto di ribadirmi nell’errore. Nell’età cosiddetta di formazione mi spuntava lo spirito di contraddizione e di difformità.
Consideravo il 5 un valido traguardo, era la metà del massimo e doveva valere la sufficienza. Per la contabilità scolastica ci voleva il 6, un’esigenza capricciosa e un numero che da allora mi è rimasto antipatico.
In quel tempo non facevo caso al mio rifiuto di corrispondere, impuntandomi contro l’obbligo di studente interrogato. Faceva parte di un confuso comportamento disadattato e comprendeva il rapporto con la città, le convenzioni, l’abbigliamento, il cibo.
Comunque studiavo molte ore, non esistendo altra possibilità. Studiavo meccanicamente imparando a memoria, senza partecipare.
L’ostilità raggiunse il punto di scontro alla vigilia degli esami di maturità. Volevo disertarli, poi li affrontai con questa promessa interiore: qualunque fosse l’esito, non mi sarei sottoposto mai più. Mi sbarravo l’ingresso all’università.
A quel tempo la gioventù mia coetanea occupava gli atenei in contrasto con il sapere accademico e l’opprimente autoritarismo. Avevo ragioni minori per unirmi a loro. Il potere, l’esercizio dell’autorità adulta mi rendevano goffe, ammuffite, ridicole quelle personalità. Pensavo di poterne fare a meno, ma con l’irriverenza dello sberleffo. Occorreva invece l’urto frontale con tutta la catena di comando, dal rettore alla questura, ai giudici, al passaggio in prigione a comitive. Mi sorpresi di trovarmi adatto, ma ho aderito perché coincidevo nel tempo e nel luogo di quella gioventù sveglia e decisa. Mancarla era disertare.
Tornando a prima d’incontrarla, ammetto che l’ostilità nei confronti degli esami fu di aiuto, uscii promosso. Era anche l’ultimo anno in cui si era interrogati in tutte le materie.
Ho rispettato la promessa, non ne ho più incontrati, con la sola trasgressione di quelli per la patente di guida.
Eduardo De Filippo ha scritto la commedia dal titolo: ”Gli esami non finiscono mai”. I miei finirono presto.
Consideravo il 5 un valido traguardo, era la metà del massimo e doveva valere la sufficienza. Per la contabilità scolastica ci voleva il 6, un’esigenza capricciosa e un numero che da allora mi è rimasto antipatico.
In quel tempo non facevo caso al mio rifiuto di corrispondere, impuntandomi contro l’obbligo di studente interrogato. Faceva parte di un confuso comportamento disadattato e comprendeva il rapporto con la città, le convenzioni, l’abbigliamento, il cibo.
Comunque studiavo molte ore, non esistendo altra possibilità. Studiavo meccanicamente imparando a memoria, senza partecipare.
L’ostilità raggiunse il punto di scontro alla vigilia degli esami di maturità. Volevo disertarli, poi li affrontai con questa promessa interiore: qualunque fosse l’esito, non mi sarei sottoposto mai più. Mi sbarravo l’ingresso all’università.
A quel tempo la gioventù mia coetanea occupava gli atenei in contrasto con il sapere accademico e l’opprimente autoritarismo. Avevo ragioni minori per unirmi a loro. Il potere, l’esercizio dell’autorità adulta mi rendevano goffe, ammuffite, ridicole quelle personalità. Pensavo di poterne fare a meno, ma con l’irriverenza dello sberleffo. Occorreva invece l’urto frontale con tutta la catena di comando, dal rettore alla questura, ai giudici, al passaggio in prigione a comitive. Mi sorpresi di trovarmi adatto, ma ho aderito perché coincidevo nel tempo e nel luogo di quella gioventù sveglia e decisa. Mancarla era disertare.
Tornando a prima d’incontrarla, ammetto che l’ostilità nei confronti degli esami fu di aiuto, uscii promosso. Era anche l’ultimo anno in cui si era interrogati in tutte le materie.
Ho rispettato la promessa, non ne ho più incontrati, con la sola trasgressione di quelli per la patente di guida.
Eduardo De Filippo ha scritto la commedia dal titolo: ”Gli esami non finiscono mai”. I miei finirono presto.
Mi sarebbero bastati gli audiolibri ma non lo sapevo. Mi sarebbe dispiaciuto non saperlo. Soprattutto non sapevo fare, da sola, scorrere parallelamente il tempo necessario ad una rielaborazione e quello di una corsa. L’uno inversamente proporzionale e dell’altro escludente, a tavolino; conciliabili, in cuffia, con un senso di pace per riuscire a sospendere almeno per un attimo la tensione verso lo scopo ultimo e l’attenzione dallo stesso. Dimenticare che in mezzo c’ero io, dopo tutto: Funes l’idiota. Sapevo dove trovarmi quando lo avrei voluto. Mi serviva cercarmi allora, l’ho fatto adesso. Ed è questa la mia definizione di esame.
Tanti auguri di buon compleanno mio amato poeta.
Buona passeggiata, Erri!
Ti auguro una giornata serena, piena di luce e di sole, foriera di una nuova rinascita.
Per te e per tutto.
Ho sempre vissuto gli esami come una battaglia, perchè – scusate lo scandalo – mi piaceva studiare, cioè capire e non sopportavo di essere sanzionato. Orgoglio e pregiudizio?
A presto! Continua a scrivere, per te, per tutti. ciau gigi
Caro Erri, non invidio gli studenti di questo periodo, costretti al salto mortale con doppio carpiato per portare alla fine un anno di sfiga mondiale. Fosse capitato ai miei anni giovanili è sicuro che avrei perso la partita, mi repelle ancora oggi la tecnologia per quanto sia costretta a usarne una parte. In concomitanza degli esami di giugno torna puntuale l’incubo di quando cercarono di cambiarmi le materie di orale; devo a un santo professore di Lettere e Storia che si è alzato mandando affanculo la commissione d’esame, se quel giorno riuscii a meritare un buon voto, opponendosi al gioco di carte spostate all’ultimo minuto. Presi un diploma di ragioneria negli anni serali di un istituto austero, nel tempo recuperato al volo dal resto di gioventù e da tanto sonno mancato. Anch’io dopo quell’esperienza pensai…’Mah, questo l’ho fatto, ma mica ho più voglia’. Mentivo, e avevo bisogno di quella menzogna per campare, era solo l’inizio di un appetito da sfamare a bocconi lenti, ma dichiararne la fame era allora un insulto alle mie origini più che proletarie.Tentai l’iscrizione l’anno successivo all’esame, ma la realtà di una famiglia in eccesso di difficoltà mi riportò alla menzogna. ‘ Ho già studiato abbastanza, si può anche stare senza sapere altro’. Si, si sta, ma per una come me : si sta male. La menzogna è stata là per molti anni, finché con un calcio nel culo l’ho buttata fuori, abusiva comoda per troppo tempo dentro stanze cerebrali di necessità. Sai già che strada ho intrapreso, non sapevi il percorso…. Ora sono circa alla metà, sono in quel ‘5’ di bilanciamento che hai detto, quello che ti fa pensare se tornare indietro o andare avanti… non ho ancora deciso cosa fare, una cosa però è emersa: gli esami staranno anche sull’anima, ma è più brutto non affrontarli, quando tutto quello che vuoi è riscattarti da mancanze che non hanno il solo gusto di pane mancato. Mi aggrego al tuo sottinteso augurio ai prossimi esaminandi 🙂 , spero per loro il taglio di traguardi giusti per il loro tempo, e di non spaventarsi per gli esami: ogni giorno sarà loro chiesto al lavoro, ai corsi di aggiornamento, in famiglia quel ‘COSA SAI FARE?’, saper dire talvolta un ‘non lo so’ non ha mai seppellito nessuno. Un grande bacio…B.
Magnifico testo che dimostra la fertilità del “cattivo” carattere.
Quanto è bello leggerti!!! E volutamente uso il verbo coniugato in maniera errata perchè quando leggo ogni tua frase, fosse solo una parola, io “non leggo il tuo testo, il tuo post, il tuo libro” ma sono convinta di riuscure a “leggerti dentro. Leggo i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, la tua fantasia, le tue risate (sommesse, educate), diventano le mie. Io ti leggo, io leggo Te”. Grazie per la tua capacità di usare le parole in maniera talmente apparentemente semplice, da avere però una potenza incredibile. ❤
Magnifico testo da affiancare all’invito alla negazione di Barthelby.