Erri è in viaggio, pubblichiamo in 6 puntate l’inedito “Grandezza Naturale”
La più dura storia tra padre e figlio si legge nella scrittura sacra. La voce che ha scaraventato Abramo fuori della sua terra verso un vagabondaggio senza arrivo, torna a visitargli l’ascolto.
Stavolta non è all’imperativo secco: “Lekh lekhà”, vai vattene, perentorio come un’espulsione. Stavolta è: “Kahn a”, prendi, su. Quel “na” è un’esortazione. La divinità vuole verificare se basta anche un invito a scatenare l’obbedienza immediata del suo ascoltatore.
Basta. Abramo non percepisce la differenza tra ordine e invito.
Accetta di eseguire la più snaturata azione, uccidere suo figlio, il solo nato dal lungo amore con sua moglie Sara.
Obbedisce sapendo di tradirla, togliendo l’unica opera del suo grembo.
Gli affetti familiari per lui sono d’intensità minore del fervore dovuto.
E’ una prova che annienta e lui s’impegna a compierla al meglio delle sue capacità, comprese quelle di dissimulare, fingere, nascondere.
La divinità non ha dato istruzioni, limitandosi a stabilire il luogo del sacrificio.
Il quadro di Chagall, le poche righe di accompagnamento prese dal suo diario, mi hanno scaraventato all’indietro, alla storia di Abramo con Isacco e alla prima tavola del Sinai che prescrive: “Dai peso a tuo padre e a tua madre”.
Il verbo viene tradotto abitualmente con “Onora”. Ma il verbo “Kabbèd” è quello materiale di un carico. Dai peso a quei due, perché quello è il tuo peso sul piatto del mondo, quello che hai dato a loro.
Chagall figlio nel suo ritratto del padre da peso a Zakhàr Chagall, un peso commosso dal ricordo e dal ritardo.
La commozione messa a strati di colore proviene da un rimorso e da una gratitudine tardiva.
Le mani di suo padre, venditore di aringhe, rovinate dal ghiaccio, le mani non baciate dal figlio, non sono presenti.
Moishe/Marek non ha osato raffigurarle. Di quelle mani, del loro odore non andava fiero.
La loro assenza dal ritratto ammette che l’irreparabile è accaduto: non ha dato loro il peso. Quel peso mancato grava sul cuore mentre dipinge da lontano il padre.
Le mani di Abramo eseguono preparativi. Si legge che prende il coltello e il fuoco. Come si prende il fuoco? Oggi è facile accenderne uno con i combustibili e sistemi di accensione. Ma come accendevano un fuoco sulla cima di un monte in mezzo ai sassi? C’è da portarsi dietro legna e fuoco.
La materia prima è caricata addosso a Isacco e ne serve parecchia per bruciare un corpo. La seconda è la brace del bivacco notturno, raccolta dentro un coccio. Per meglio accendere ha forse con se della polvere di zolfo, elemento conosciuto e impiegato all’epoca dai nomadi.
I pittori che si sono dedicati a illustrare il fotogramma culmine del coltello sguainato sulla gola di Isacco, hanno denunciato con forza quella mano robusta, ferma, pronta.
Ma prima Abramo ha lasciato i servi al bivacco e si è avviato in salita con il figlio dietro.
Isacco chiama: “Avì”, padre mio.
Abramo risponde: “Hinnèni”, eccomi.
Adesso Isacco sa. Suo padre ha usato la stessa risposta rivolta alla divinità.
Sa che sono soli e che tra loro due è in corso una prova sotto sorveglianza.
Manca l’animale da abbattere sulle pietre grezze di un altare da costruire sul posto.
Suo padre che non lascia niente al caso ha già tutto il necessario per il sacrificio, perché è lui Isacco, la vita da immolare.
Leonard Cohen, cantautore che Erri ama molto, ha scritto la bellissima “Story of Isaac”. https://www.youtube.com/watch?v=tr0HCqiD1C8
E “Hinnèni” è la parola chiava della prima canzone del suo ultimo disco, uscito pochi giorni prima della morte, “You want it darker”: https://www.youtube.com/watch?v=v0nmHymgM7Y
… Riflettevo sul verbo… Lo sguardo del padre conferisce gravità al figlio perché possa sentirsi in grandezza naturale: a proprio agio nel mondo…
Due occhi cerchiati di rosso, a sottolineare un nodo… Ed il legame tra occhi e mani apparentemente scompare scontato della profondità dello sguardo… Mani che si fanno binocolo e si allungano su un mondo lontano: chirotesia delle tonalità di uno Spirito.
La sua voce può essere confusa con altro. Nel quadro, con il resto del volto.
Conoscevo un rabbino che ha interpretato l’Akedah cosi: che la prova fosse se Abramo avrebbe fne atto l’impensabile solo sul commando di dio, o se la ragione morale l’avrebbe vietato di preparare il proprio figlio per sacrificio umano, e in questo Abramo è venuto meno. Fallisce. Non dimostra la minima ragione. E quindi non ha più voce nella hamisha (Pentateuch). È l’ultima volta nella narrativa che Abraham parla. Sparisce la sua voce, e lui non ne appare più.
La grande intelligenza interpretativa e la straordinaria traduzione letterale cercando di dire le stesse cose come allora. Fantastica l’interpolazione del quadro di Marc Chagall: “…Il quadro di Chagall, le poche righe di accompagnamento prese dal suo diario, mi hanno scaraventato all’indietro, alla storia di Abramo con Isacco e alla prima tavola del Sinai che prescrive: “Dai peso a tuo padre e a tua madre”.
Il verbo viene tradotto abitualmente con “Onora”. Ma il verbo “Kabbèd” è quello materiale di un carico. Dai peso a quei due, perché quello è il tuo peso sul piatto del mondo, quello che hai dato a loro.
Chagall figlio nel suo ritratto del padre da peso a Zakhàr Chagall, un peso commosso dal ricordo e dal ritardo.
La commozione messa a strati di colore proviene da un rimorso e da una gratitudine tardiva.
Le mani di suo padre, venditore di aringhe, rovinate dal ghiaccio, le mani non baciate dal figlio, non sono presenti.
Moishe/Marek non ha osato raffigurarle. Di quelle mani, del loro odore non andava fiero.
La loro assenza dal ritratto ammette che l’irreparabile è accaduto: non ha dato loro il peso. Quel peso mancato grava sul cuore mentre dipinge da lontano il padre…”