È tradotto in italiano il racconto di Violette D’Urso: “I ricordi degli altri” (Mondadori). La ricerca del padre perduto raschiandola dal fondo dei ricordi di persone che lo hanno incontrato.
Non sono padre, non so cosa vuol dire essere guardato da una figlia, un figlio.
Questo racconto di Violette D’Urso alla ricerca di suo padre attraverso chi lo ha conosciuto mi fa sapere che intensità raggiunge il desiderio di costruirsi la figura paterna.
Le è mancata che lei era appena scolaretta. Nell’affannoso divenire dell’adolescenza ha voluto sapere. Ci ha messo i giusti anni per inseguirlo all’indietro, nel tempo in cui non si è stati ammessi e che bisogna forzare come un baule chiuso a chiave.
La sua ricerca è un viaggio in Italia, nei luoghi e tra le persone incrociate da lui. Ognuna di loro si presta, con vaghezza o con premura, all’aggiunta di frammenti che messi insieme non combinano a formare la figura. Quella si ricostruisce dentro la figlia col legante genetico e con la capacità di narrare.
I luoghi di suo padre sono fondali della messinscena della sua vita.
Naturale per me che, dei diversi posti, Napoli sia l’epicentro. Così leggo scritta da lei la città in un modo che non conoscevo ancora.
Intanto scorre intorno al raccolto dei ricordi degli altri, un po’ di storia del 1900.
Sono coetaneo di suo padre. Nell’infervorata gioventù dei ruggenti anni ’70 (ogni metà di secolo ha un decennio così) ci siamo di sicuro incrociati dentro assemblee, riunioni, manifestazioni non autorizzate che facevamo lo stesso.
Qui c’è sua figlia, anzi ci sta, col verbo stare alla napoletana, che calca maggiormente la presenza. La sua scrittura lavorata è il verbale di un’indagine condotta per amore e per bisogno di sapere, cause doppiamente sufficienti.
Dopo la morte una persona continua l’esistenza dentro gli altri. Non prosegue notturna dentro il lenzuolo del fantasma, dura invece diurna nelle stanze, alle tavole, nei viaggi, ovunque venga nominata. Se ha molto condiviso, molte volte sarà richiamata.
Così la morte perde il diritto all’ultima parola.
Violette D’Urso lo dimostra qui. Spetta a lei il formato definitivo dell’uomo che è stato suo padre.