Il link dell’intervista a Erri De Luca e Nives Meroi di Marco Cattaneo al “National Geographic”
https://www.nationalgeographic.it/video/tv/come-cambiera-la-montagna
L’intervista a Erri De Luca di Daniele Ceccarini a “Russia Privet”
Mi piacerebbe iniziare l’intervista con un ricordo di Luis Sepulveda, un grande scrittore che hai conosciuto personalmente e del quale eri amico.
Siamo stati coetanei di un secolo politico, abbiamo conciso nelle stesse battaglie, il suo Cile è stata una bandiera della mia gioventù. Poi ci siamo incontrati nelle occasioni letterarie e si è stabilita l’intesa diretta tra noi due. Mi ha pubblicamente difeso al tempo del mio processo a Torino per le mie parole di sostegno alla lotta della Val di Susa. L’ultimo abbraccio ce lo siamo scambiato proprio a Torino, al Salone del libro, a maggio dell’anno scorso.
In un mondo globalizzato Napoli conserva forte la propria identità anche linguistica. In napoletano si traduce tutto: Amleto rappresentato da Tina Pica e recentemente dal regista Davide Iodice, a Lamagna con i sonetti di Shakespeare, a Pennino con Seneca, a Rosanna Bazzano con Anna Achmatova… Pensi che la lingua possa essere una forma di resistenza culturale contro l’omologazione?
L’Italiano è lingua che proviene dai dialetti e li assimila. Lo stesso fiorentino di Dante era un dialetto.
L’Italiano è lussureggiante come una foresta tropicale grazie ai molti dialetti che continuano a irrobustirlo. Il napoletano è la mia lingua madre, quella che parlo ancora con me stesso, le cui canzoni e poesie conservo a memoria. È un callo che sta sulla mia presa sull’italiano. Mi permette un supplemento di ironia che, questa sì, migliora la mia cittadinanza.
Napoli e il Sud hanno subito l’occupazione feroce dal re piemontese. La legge Pica fu terribile. C’è voluto più di un secolo per raccontare le storia di Michelina De Cesare, Carmine Crocco e di tante altre persone umili travolte da vicende più grandi. C’è secondo te una ragione per la quale le storie di queste persone diventano pubbliche in un preciso momento?
Il cosiddetto brigantaggio fu una miscela di ultima resistenza borbonica all’occupazione e di banditismo. Ma il cedimento della dinastia regnante a Napoli fu imperdonabile. È mancato allora un pensiero politico che prendesse atto del processo inarrestabile dell’unità d’Italia e che stabilisse con la casa Savoia un’alleanza tra contraenti pari. La storia è stata scritta invece dai vincitori di quel confronto, che depredarono Napoli, il cui tesoro fu immagazzinato dall’erario sabaudo. Di tanto in tanto una storiografia più sobria riporta i dati di quella che fu un’annessione di una parte sull’altra, non una Unione.
Napoli ha ancora l’orgoglio della capitale del Mediterraneo, cosa le impedisce di essere un ponte di pace tra il nord Europa e l’Africa?
Avrebbe bisogno di uno statuto speciale, una zona demilitarizzata, un porto franco. Comunque conserva una sua identità mediterranea dovuta ai lunghi secoli di regno spagnolo e alla sua origine di città fondata dai Greci come appunto dimostra il nome greco di Neapolis.
Hai affermato che ti capita di essere nominato come scrittore italiano, ma tieni a precisare che sei uno scrittore in italiano. Perché la tua prima lingua è stata il napoletano. Quanto ha influenzato l’essere nato in una città come Napoli il tuo immaginario da scrittore?
Ho assorbito le storie della mia famiglia e della città attraverso il dialetto. L’italiano era all’inizio una lingua seconda e opposta, che esisteva nei libri della biblioteca dei miei genitori e che si parlava senza accento con mio padre. L’italiano non alzava la voce, non accorciava le sillabe, era lingua del secondo tempo. Perciò pur scrivendo in italiano tengo a dichiarare la mia origine di scrittore napoletano.
Hai abbandonato l’università per lavorare come operaio e fare politica. Oggi una scelta del genere avrebbe senso?
Lo ha avuto per me allora, anche se era una rinuncia volontaria, i miei potevano pagarmi quegli studi. Ma io ero andato via a 18 anni a inventarmi una vita diversa da quella da loro immaginata. Poi mi sono trovato intorno una gioventù politica insorta nelle strade e ci sono rimasto dentro per tutto il decennio ‘70, quello dei miei venti anni. Poi non avevo altra scelta che fare mestieri manuali. E ancora li starei facendo, se la scrittura non mi avesse misteriosamente sospeso la necessità. Ma quella scelta di evitare gli studi universitari non era ragionevole allora e non lo sarebbe adesso. Ma io non ero ragionevole, né lo sono diventato.
In un mondo iperconnesso le persone hanno l’illusione di poter dire sempre tutto. Tu dai sempre molta importanza alle parole, poeti, scrittori, in passato sono stati processati per l’uso di alcune parole, tu compreso. Perché alcune parole sembrano pesare molto di più rispetto a tante altre?
Pesano di più le parole contrarie agli abusi delle autorità, interrompono il circuito dell’obbedienza, rimbombano nel vuoto e aizzano la repressione. Ma la nostra Costituzione, scritta da chi aveva subito censura dalla dittatura fascista, fissa la più ampia libertà di espressione, dunque da noi un processo come quello intentato contro le mie parole era sbilanciato e sperimentale. Poi esistono parole letterarie che tengono compagnia, procurano sollievo, aumentano la dote di cultura e perciò sono benefiche. Poi ci sono le parole della fede che hanno un peso specifico antico e solido. Sentirle in bocca a un politico a scopo di propaganda le toglie invece peso e le svilisce.
Hai anche studiato l’Ebraico, per quali ragioni hai tradotto le Sacre Scritture? Questo tuo studio, è la ricerca del Sacro? Pensi che il Sacro, la religione, la dimensione spirituale siano uno strumento per combattere una società dominata dal denaro?
Ho studiato per conto mio l’Ebraico perché è la lingua originale dell’Antico Testamento e volevo conoscere com’era fatta la grammatica, il vocabolario delle parole che avevano introdotto il monoteismo, scalzando dal piedistallo tutta la folla di divinità precedenti. Non sono credente, sono un lettore quotidiano, al mattino, di qualche capitolo. Ho fatto qualche traduzione molto letterale in italiano per dare un’idea di com’era quella lingua con la quale la divinità si rivolge. Sono solo degli esercizi di fedeltà, visto che le traduzioni correnti se ne discostano. Non ho pretese di predicazione.
La recente epidemia del coronavirus ha accentuato la tendenza autoritaria della società, pensi che stiamo avvicinandoci al controllo totale dell’individuo, alla perdita della libertà, ad un regime in cui tutti spiano tutti?
Finché abbiamo libertà di espressione la nostra costituzione di cittadini è al sicuro. In questi mesi abbiamo solo sperimentato una condivisa restrizione dei movimenti. Una libertà che abbiamo perso volontariamente e da tempo è quella della nostra riservatezza, detta inutilmente privacy. L’abbiamo consegnata al gestore dei nostri cellulari.
Napoli, i vent’anni di vita operaia, la militanza rivoluzionaria con Lotta Continua, il volontariato nei paesi dell’Est. La lettura dell’ebraico antico… Nella tua scrittura si avverte un senso di profonda umanità, la capacità di percepire la compassione. Quale di queste fasi di vita ritorna di più nella tua scrittura?
A turno sono passate tutte in forma di racconto, perché da lì attingo, dalla vita svolta, dalle persone incontrate, dalle loro storie. Ho pudore a inventare, preferisco ripassare su avvenimenti che ho attraversato.