All’assemblea nazionale degli accademici del Club Alpino Italiano sono stato invitato per rendere ufficiale la mia nomina a membro in qualità di socio onorario.
Davanti a una platea di alpinisti di alto livello ho ringraziato per l’onore di essere accolto tra loro. Se ne sarebbe rallegrato mio padre, alpino nella seconda guerra mondiale. Devo a lui l’attrazione che provo per le scalate.
A nome suo ho raccontato in che modo posso fare sparire una montagna.
Inizio guardandola da lontano, tutt’intera stagliata contro il cielo.
Poi mi avvio nella sua direzione e mentre avanzo la vedo solo in parte.
Arrivato alla base della sua parete ne vedo solo un muro.
Attacco la scalata e ne vedo solo i centimetri al di sopra di me.
Infine arrivo in cima e la montagna non c’è più. Eccola fatta sparire.
L’alpinismo è l’annullamento di una distanza.
La cima non è il traguardo, ma la sua scomparsa.
È utile che al vertice si trovi a sbarramento una croce segnaletica con divieto di transito più in alto.





Guardo a quella stessa cima mentre mi specchio negli occhi di una donna a cui ho dedicato del tempo inoccupato diversamente.
Perdere la memoria può terrorizzare: quel senso panico di fronte all’abisso di sé stessi, che ad un tratto si spalanca a cancellare i punti di riferimento. Come anche i meriti. Ma anche i torti, sia quelli subiti che quelli procurati a qualcun’altro.
Da questa parte, sull’orlo dell’abisso, c’è la giusta ricompensa e ricongiunzione: l’annullamento dell’Io per scongiurare quel destino dimenticato, oltre il velo. Lì in quell’abisso in cui non si è più in grado di intendere la vita in proiezione verso il futuro; nel mentre quella donna mi accoglie come il suo passato, unico fermo, immobile, un pensiero che svolazza ma che ritorna sempre.