Sul palco del teatro Bolivar di Napoli raccontavamo, Cosimo Damiano Damato e io, le rose di Sarajevo, luogo di guerra di trent’anni fa. Sono quelle lasciate al suolo dallo scoppio delle granate, incise da un rosario di schegge. Ci aiutava la voce di Anissa Gouzi, la chitarra di Giovanni Seneca e il contrabbasso di Alberto Pesaresi.
I popoli vogliono e devono dimenticare le guerre, ricoprire i lutti come fa la terra fiorita sulle fosse comuni.
Le singole persone ci riescono meno. Si incide sottopelle la rosa con le spine.
Mia madre continuava a sentire di notte il suono della sirena dell’allarme aereo che le spezzava i sonni.
Mio padre, soldato alpino in Albania, parlava solamente di montagne e di un fiume, Vojussa, in cui i soldati gettavano bombe a mano per far affiorare i pesci e cucinarli.
Da bambino immaginavo la guerra sotto la forma di un campeggio.
A Sarajevo ci sono stato, autista nei convogli di aiuti, non ricordo quante volte.
C’era un cunicolo lungo un chilometro, scavato sotto il monte Igman. Lo percorrevamo con i pacchi famiglia sulla schiena.
Dentro Sarajevo ho incontrato il poeta Izet Sarajlic, stringendo una forte amicizia.
Lui mi accoglieva con un: ”Bentornato nel carcere più grande di Europa”. L’accerchiamento di oltre mille giorni aveva trasformato i cittadini in detenuti. Il più diffuso cartello stradale era PAZI SNAJPER, attenzione ai cecchini. Sparavano con fucili di precisione dalle colline vicine.
Sul palco del Bolivar mi sono affiorati i ricordi.
Cosimo leggeva un paio di lettere di Izet a me, io rispondevo con le mie a lui.
Demmo alla raccolta il titolo di Lettere Fraterne.
Ripeto una frase che Izet scrisse dopo la morte di stenti in Sarajevo dell’ultima sorella, Razija, la minore, traduttrice dall’italiano: ”Ma io non posso non essere fratello”.
Così è anche per me.
I veri fratelli si danno sempre la mano, piangono insieme un momento ma poi iniziano subito a ri-costruire per gli altri che verranno.