Mamma diceva che me ne cantava una per calmarmi. Ma credo ch’era il mare a cullarmi le orecchie in quella prima casa tra gli scogli. La stanza era la stiva di una nave sballottata. Le ondate mi fanno ancora l’effetto di sonnifero.
Me l’ha cantata più tardi e così l’ho imparata, la ninnananna delle dodici mamme e dei loro figli morti in guerra.
Penso a lei che mi cantava questa periodica tragedia materna cercando di stordirmi con la nenia.
Era uno scongiuro? Che non le capitasse il figlio morto in guerra? O sapeva solo quella e allora avevano poco peso le parole per lei e nessuno per me.
Tra le cose disperse dal sacco bucato della memoria ci sta la sua voce. Ricordo e ripeto le sue frasi ma senza il suono e la modulazione della sua cadenza napoletana.
Le ho cantato canzoni al tempo che appoggiavo la chitarra sulle gambe.
Ho smesso da parecchio.
Nel ricordo capisco che ero io a sgranare per lei il sillabario delle ninnenanne.
Alla fine succede che le canta il figlio.





Allora erano ninnenanne, quelle che ho ascoltato, ieri sera, per caso, di bambini che, nonostante l’orrore vissuto, sognavano di diventare grandi ed insegnanti o dottori per “aiutare gli altri”… Se non è stato concesso loro l’oblio, quello che si dice risani le ferite dell’anima e a lungo andare ricopre di polvere ed indulgenza le storture della memoria collettiva, venga almeno loro riconosciuto di essere stati i veri testimoni di un “g”rande show mondiale, durante il quale gli attori si sono dati da fare a ripulire gli occhi del mondo con del fumo di artiglieria pesante e, grazie a banalissime manipolazioni di emozioni, a ripristinare la pace. Altrimenti la guerra. Ninna nanna, ninna-o!