Ricevo prima della pubblicazione (Multimedia Edizioni) il piccolo libro di versi di Juan Vicente Piqueras, poeta che incontrai molti anni e molte bottiglie fa. Alcune le condividemmo. Non ho conosciuto poeti astemi.
Il suo titolo è “Padre”, senza l’esclusivo aggettivo mio, senza il religioso nostro. Così comincia:
“Il giorno che andai via
stesa sulla terrazza
bianca al sole
la camicia di mio padre
sollevava una manica.
Mi chiamava?
Si congedava da me?
Mi stava dicendo: vattene?
Mi stava dicendo: torna?
O era solo il vento?“
Ho scritto anch’io della camicia di mio padre, quando lasciai la sua casa. Ma ho avuto, leggendo, uno strano ricordo che non c’entra niente.
Le rondini scendevano a sassate a sfiorarmi la testa, per allontanarmi dal nido sulla parete che stavo scalando. Il loro vento mi colpiva in faccia con uno schiaffo d’aria. Chiudevo gli occhi, incassavo il collo nelle spalle. Non potevo fare altro che passare. I loro strilli mi tendevano i nervi.
Padre: per chi è stato cresciuto da questa figura, con questa figura, la sua morte è la caduta di un albero sul quale si è saliti durante l’infanzia, le sue ginocchia rami. La sua morte spezza il tempo in due.
Ogni padre è una specie diversa, il mio era un carrubo, facile da salire, odoroso d’estate. Nel naso confondo il profumo delle carrube con quello della sua brillantina verde. Poi è diventato il rosmarino che ho piantato sulla sua tomba in terra.
Del resto la figura dell’albero genealogico è antica e universale.
Incontrai Juan Vicente ch’era giovanotto, ora avrà i capelli grigi. I miei s’ingrigirono di colpo alla morte di mio padre, poi le ricrescite li hanno scoloriti.
Leggo i versi e rimbalzano dentro per un’eco di rassomiglianze, anche lui partito ragazzo lasciando casa e città, spaesato nei ritorni, persa l’appartenenza, rimasta come un tatuaggio la provenienza.
Suo padre è stato contadino, mestiere terrestre per chi lo guarda fare. Per chi lo fa è invece la fitta consultazione con il cielo, il vento, la grandine, la siccità, le lune. Le semine, i raccolti si fanno alzando prima la testa in alto a chiedere permesso. Si segue anche il volo degli uccelli che sono gli interpreti più esperti. Juan Vicente scrive che suo padre era un traduttore del cielo.
Concludo questa nota sui padri, con i suoi versi a lui:
“Una nuvola incontra un’altra nuvola,
si sposano e si mettono a piovere.
Questa è la storia dell’amore
secondo mio padre.“
Cara Simonetta, lei è grande, perché senza perdono e senza rancore ha superato il suo immenso dolore. Ha ragione di guardare avanti ora e di sentirsi libera perché l’odio incatena. Grandissima Simonetta e tanta Fortuna nella sua vita.. un amico sconosciuto
Mio padre non mi ha voluta, e sono cresciuta senza di lui.. Lontana da lui.
Non ho conosciuto le sue ginocchia o le sue spalle, non ho avuto i suoi consigli o i suoi rimproveri.
Poi ho saputo che si informava sulla mia vita, guardava le mie foto, chiedeva se lavoravo e che uomo avevo sposato.
Io l’ho cercato sempre in tanti modi, tutti civili e discreti.
Io l’ho odiato a volte, soffrendo la sua mancanza nelle giornate felici e in quelle tristi.
Lui ha stracciato le mie lettere e negato ogni incontro.
Oggi che l’Halzheimer l’ha imprigionato in un mondo parallelo, dove quotidianamente respira mangia beve evacua e dorme.. E si toglie la dentiera mettendola nel piatto
Oggi io sono potuta entrare in casa sua per abbracciarlo e tenere le sue mani nelle mie guardandolo negli occhi, senza essere più scacciata..
Io non lo giudico e non devo neanche perdonarlo, non spetta a me.
Oggi io posso guardare avanti perché non guardo più indietro e mi sento libera..
Mi arrampicavo fin sulle sue spalle. Mi accertavo, scrutando da vicino il suo volto, che tutto andasse bene e poi scendevo. Si può recidere un albero fin da dentro lo sguardo e sentirsi profughi.
Tra quell’albero e il cespuglio c’è un mare che vivifica le semi-cose con sfumature di senso, come fossero simulacri. L’esilio da sé stessi ed insieme il ritorno: un mare.
Parlare di un padre (e a un padre) è più intimo che parlare di sè. Dev’essere per questo che quando leggo i tuoi scritti su di lui ti sento prossimo come se ti avessi davanti e tu mi stessi raccontando a voce cose che hanno a che fare anche con la mia, di vita. La tenerezza verso quel piccolo Erri è tenerezza verso me stessa, voglia di stringere gli occhi per trattenere i ricordi, paura di lasciar andare – con le lacrime – qualcosa di infinito valore che non tornerà indietro. L’uomo che sei affonda in quel terreno, che in te continua a germogliare.
Grazie di offrire, anche qui e così generosamente, la grazia dei tuoi fiori.
Caro Poeta, leggo gli omaggi dei poeti ai padri e mi scopro con mille mancanze. Nella tua bibliografia ci sono molti riferimenti a lui, così teneri che mi chiedo se ti abbia dato mai nella vita uno scappellotto sul didietro da piccolo… credo di no. Tua mamma invece con la cucchiara in mano me la vedo… 😀 o con la ciabatta, pronta al lancio olimpionico. (Le madri sono tutte campionesse di lancio della pantofola, ti centrano pure se sei un centometrista). Io non so cos’è davvero un padre, il mio è stato molto assente, soprattutto verso se stesso. I ricordi aggregati a lui cozzano con quel che avete scritto , e so così che quello che ho avuto io non ha nulla a che fare con i vostri. Però scrivi “Ogni padre è una specie diversa”, e se il tuo è stato un carrubo, il mio è stato cespuglio dalla nascita, non so… forse la sua origine africana e migrante non gli ha permesso di piantare sane radici di alberi. Ma non è stato cespuglio avaro , lui era mirto nero, e qualcosa ha dato della sua vita, non ha solo preso vento. Di lui ho dovuto far centina di ricordi, conservare solo quelli divertenti, come quando con mio zio tornava allegro di barbera dalle sconfitte a carte della vinicola; e quei pochi che mi rivelavano in stati sobri quale fosse la sua vera indole, come quando si levava il cappello davanti a qualsiasi passaggio di carro funebre (un gesto che vedo fare a pochi uomini ormai). Il resto non è che l’ho buttato, ma a un certo punto una figlia deve decidere che cosa vuole essere stata per suo padre, e cosa nell’archivio dei pensieri mettere in ribalta. Io mi tengo quel vento che ogni tanto spargeva semi di allegria, e tanti saluti ai ricordi brutti. Quelli sì che prendono vento e basta, senza mai rendere un po’ di frutti buoni. Ciao tesò, i padri non si scelgono, e va già bene se quando se ne vanno non ti lasciano i debiti. Kisses, tuo tappino.
Quello che ha raccontato, Tappino torinese, è molto commovente e tanto vero, Però nessuno sceglie i suoi genitori, fortunati chi li ha bravi e buoni. Però è vero anche il contrario, non sempre i padri o le madri hanno i figli che vorrebbero avere. Un grande scrittore chiamato Jean Giono ha detto in proposito, in un suo libro magnifico intitolato ‘IL CANTO DEL MONDOIl’, rivolgendosi al proprio figlio ” Noi (genitori) non abbiamo i figli che noi vogliamo, ma abbiamo i figli che noi siamo e quello che noi siamo, non lo sappiamo.” Non è magnifico!? Bella serata con Jean Giono o altro. un amico sconosciuto
Allora per Juan, l’amore sarebbe l’incontro di due tristezze per come lo comprendo io, Non ha torto, alcuni nomi noti e magari padri, la pensano come lui, però lo dicono a modo loro, Bello anche questo. La ringrazio, Erri. un amico sconosciuto .
Stupendo scritto. Grazie!
Quando due poeti si incontrano il cielo sembra ancora più grande e il legame col padre eredità che sostiene. grazie gigi