Intorno la giornata era lucente e limpida. Sulla parete c’era invece una nuvola di condensa che l’avvolgeva a lenzuolo, dalla base in cima. Procurava penombra e l’umido di una cantina. Ovunque intorno c’era estate piena, solo sulla parete era l’autunno.
Poche centinaia di metri verticali separavano un paio di scalatori da chi passeggiava sui sentieri al sole. Avevo l’impressione di stare in raccoglimento dentro un’improvvisata chiesa, per cupola una nuvola.
Disponevamo di un oscuro spazio minerale, con la punteggiatura di qualche fiore ardito, artigliato sul niente. L’acustica era perfetta, le poche sillabe scambiate a distanza tra il primo di cordata e il suo secondo, bastava sussurrarle.
Poi sulle ghiaie in discesa siamo rientrati dentro la stagione e il giorno. Ho avuto il pensiero di essere di ritorno da una distanza e da un tempo remoto.
Così ho ricordato. Quando attraversavo la frontiera italiana rientrando dai giri di distribuzione dentro la guerra di Bosnia. Mi avveniva l’impatto passando dai giorni in mezzo a un popolo a brandelli, alla prima città italiana coi negozi aperti, i cittadini intenti ai loro impegni.
Bastava qualche centinaio di metri orizzontali, di là di un posto di frontiera. Mi capitava a ogni rientro lo sbandamento di chi da una tempesta in mare sbarca al molo.
L’avevo dimenticato. Me lo ha ripresentato il ritorno su un sentiero illuminato e asciutto, dopo le ore in parete nel sacco della nuvola.
Trova strane assonanze la memoria.
A voltarmi indietro provo gratitudine per i miei sensi, opachi ma non fino al punto di farsi cancellare l’equilibrio scosso di quei rientri in patria.
È come un’isola che emerge. A definire una funzione: inferiore perché non differenziata, religiosa perché mette in contatto quello che è nel profondo con la superficie.
È innato intervenire. Per questo inutile.
Sembra l’estratto di un romanzo d’amore. La poesia trabocca nelle pause, sboccia sotto il punto che separa due frasi, che sembrano emergere da un liquido denso ma leggero, e galleggiare a pelo d’acqua, come cullate.
Ritrovo un Erri segreto, riflessivo, sereno.
Mi piace immaginarti mentre scrivi queste righe, seduto all’ombra di un albero, in un pomeriggio lento dove le lancette sono ferme da ore sulle sedici e il sole ha un calore clemente. Potendo scegliere, vorrei essere la folata di vento frizzante che ti sparpaglia le pagine, che per un attimo ti stacca l’azzurro degli occhi dal foglio e lo restituisce al bambino che sei stato.
A volte quel bambino mi manca come se davvero avessi avuto la sfacciata fortuna di conoscerlo.
A volte mi sembra niente il mio “grazie” per quello che hai fatto quei giorni in Bosnia: ma lo ripeto qui, forte come un grido, anche se è poco, per assonanza di memoria.
Ciao Erri