Sono entrato nella grande officina di fabbrica a 28 anni. Non avevo niente che mi poteva stupire, fuori e dentro di me. Me l’aspettavo l’impatto del chiasso dei macchinari e delle lavorazioni.
Però starci le otto ore, aggiungendo al frastuono quello che producevo anche io con due frese, un tornio e una pressa, era una novità acustica, difficile da farci l’abitudine. Gli operai tra loro gridavano anche da vicino.
Era la fine degli anni ’70, di un decennio di urti tra salariati e proprietà, che avevano cambiato i rapporti di forza. La più importante delle conquiste era la dignità. Gli operai si erano guadagnati il timore delle gerarchie, premessa di rispetto.
Così posso parlare del silenzio. All’improvviso si fermavano tutti i macchinari dell’enorme officina. Una a una le linee di montaggio smettevano il frastuono.
Sono uno di quelli che hanno conosciuto quel silenzio che inghiottiva il chiasso.
Poi da qualche parte del capannone si muoveva un corteo di operai. Marciavano in mezzo alle linee battendo coi martelli su bidoni vuoti, a ritmo di slogan.
Passavano da un’officina all’altra a fermare tutto. Facevano il temporale in terra.
I guardiani addetti al controllo della produzione, divisi per squadra, reparto, si andavano a nascondere in cerca di riparo. Se trovati, dovevano sfilare anche loro nel corteo.
Il tempo della fabbrica era sospeso. Era in corso il controtempo, scandito a colpi di tamburo.
Sono uno di quelli che l’hanno conosciuto.
Era preceduto dal silenzio dei macchinari spenti dagli ammutinati.
…io invece ci entrai a 21 anni, a Torino, ma quel che hai descritto l’ho vissuto, completamente. Grazie Erri meglio non avrei saputo dirlo