Mi trovo a rileggere “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi, da un’edizione Einaudi del 1951.
I libri avevano un’eleganza semplice e solenne, perduta a favore dell’appariscenza da banco di libreria.
Carlo Levi è stato tra le migliaia di esiliati dal fascismo al confino di polizia in isole o in borghi altrettanto isolati e lontani dai loro domicili.
Dopo la prigione trascorre un anno in Lucania. Dalle prime righe ci si affeziona all’uomo, giovane medico torinese appassionato di pittura. S’interessa ai contadini, poverissimi, indebitati da un sistema esoso, in quotidiano cammino di ore verso i loro campi lontani dal paese piantato su un cocuzzolo.
Sono esclusi dalla storia, nessuna epoca li ha risparmiati, li ha forniti di migliori strumenti e conoscenze.
Carlo Levi scrive di loro. È la prima volta che succede di prima mano, a distanza annullata e con un del tutto nuovo sentimento di fraternità.
L’arretratezza della medicina e dei suoi scarsi praticanti rende la presenza di Levi una benedizione per i malanni dei contadini. La malaria è endemica in assenza di opere di bonifica.
La premura dell’esiliato per i contadini ha tale effetto che l’autorità gliela proibisce. Lui cura di nascosto mentre dipinge e scrive.
Qui si fonde il pittore e lo scrittore, le descrizioni di paesaggi e volti sono disegni, schizzi di precisione visiva.
Termino la lettura di un libro scritto da un torinese che ha voluto bene al sud dei contadini, più di un Tolstoj coi suoi servi della gleba.