Ripasso per Napoli un giorno di ottobre posato sopra il golfo come una carezza.
Mi affaccio da un balcone della Certosa di San Martino. Prima ho attraversato i cortili e le architetture strepitose, rispetto alle quali le moderne sono miniature.
Ispirarsi al grandioso è stato il normale approccio dell’edilizia napoletana.
Nel 1600 la città era l’indiscutibile capitale di un vasto reame. Esigeva la massima espressione in ogni campo delle arti.
Con la magnificenza negava, contrastava le sue precarietà: quattro eruzioni del Vesuvio in un secolo, lo sterminio della peste (1656), le sanguinose rivolte popolari.
Al di sopra dei subbugli s’innalzava la sfarzosità del Barocco, eleganza di arredo sulle piaghe.
Tra i vicoli che scendono dalla collina della Certosa i domicili a piano terra, i bassi, hanno porte blindate, segno di qualcosa da difendere. Li ricordo aperti, senza nemmeno l’uscio.
Nel locale preferito a piazzetta di Porto il baccalà sublime insieme ai primi friarielli di stagione costituiscono l’atto liturgico che mi riporta alla tavola dove nessuno dei miei mancava.
Ognuno ritrova la sua cittadinanza assegnata una volta per tutte da una mensa apparecchiata.
La mia dura per un giorno di ottobre a Napoli.




