Il 4 gennaio 1960 alle 13,55 la vita dello scrittore Albert Camus finiva distrutta in un incidente stradale. Aveva 47 anni, un Nobel assegnato poco prima.
Nato in Algeri in un quartiere povero, aveva avuto per compagno di giochi il mare, a vista e sulla pelle. Rimase figlio del Mediterraneo e dell’Algeria, quando non era ancora nazione indipendente.
Riporto due sue frasi.
“La nobiltà del mestiere di scrittore sta nella resistenza all’oppressione, dunque nell’acconsentire alla solitudine” (Il primo uomo). Condivido questo pensiero da lettore, non da collega dello scrittore. Da lettore mi accorgo se lo scrittore è un isolato o fa parte di una consorteria. Il suo valore per me cambia di molto.
Da scrittore invece non credo che questa attività sia un mestiere, come lo è invece quello di giornalista, praticato da Camus in gioventù.
Pur profittando della qualifica e dei relativi diritti di autore, non credo che scrivere storie sia un esercizio governabile da disciplina e da ragionevolezza, e che possa trarre benefici dall’esperienza svolta. In ogni storia sento di andare allo sbaraglio e questo è per me il solo indizio promettente.
L’altra frase: ”La speranza, al contrario di ciò che si crede, equivale alla rassegnazione” (Nozze). Questa affermazione corrisponde alla necessità di battersi, di agire anche contro ogni probabilità di riuscita. La speranza, ultima dea quando le altre divinità si sono dileguate, aspetta il soccorso, ignorarla spinge in avanti.
I sommersi e gli sbarcati del Mediterraneo, il mare di Camus, esprimono una necessità più forte di qualunque attesa. Sono perciò invincibili.
Morì sessant’anni fa. Le sue pagine durano e il tempo non le usura.
Andare oltre le colonne d’Ercole è l’unico modo per liberarsi dallo stigma di emigrato economico, climatico o di turista tiraacampare. Ma se aldilà c’è l’Italia, la speranza nella possibilità di incontrare qualcuno non dovrebbe inficiare la possibilità di prendere contatto con la realtà, e il suo principio, per fare cultura e memoria: poiché “il rimpianto è un’altra forma di speranza” e “vedi l’Italia e poi muori” non è solo verosimiglianza.
Caro Poeta, di Camus tentai anni fa la lettura di un libro che poi lasciai per eccessiva durezza, “La peste”. Mi riprometto sempre di conoscerlo meglio, chissà, forse quest’estate… quindi, piuttosto che commentare superficialmente le frasi proposte, mi permetto di commentare le tue ” … non credo che scrivere storie sia un esercizio governabile da disciplina e da ragionevolezza, e che possa trarre benefici dall’esperienza svolta.” Poi aggiungi: ” In ogni storia sento di andare allo sbaraglio e questo è per me il solo indizio promettente.” Ecco, io avrei invertito la cronologia. S’è vero che l’inizio è uno sbaraglio, poi la disciplina e la ragionevolezza ci sono perché è la narrazione stessa che la crea. Per ogni scrittore è diverso (a te come capita?), io la chiamo ” la secchiata del vecchio stronxo dal balcone”.
Ti sarà capitato da piccolo di giocare sotto a qualche portone, e che stufo di sentir rumori qualche vecchio abbia tentato il gavettone da chissà quale piano per allontanare le cause… ecco: a te non so, a me succede così, una secchiata di acqua e sapone sulla testa. L’intuizione delle storie avvengono così e nella testa già mezza storia si è scritta, già si sentono le voci di chi chiacchiera con chi… rumori di cose spostate, odori, canzoni, grida…poi qualcosa ti prende per mano e ti fa ricucire i pezzi. Una scansione che parte dal chissà all’ecco fatto. Chissà cosa capitava a Camus mentre scriveva, lui parla di solitudine. Ma non credo sia stato sincero, doveva usare la parola ‘silenzio’. E sono certa che la frase dovesse essere in realtà così: ” “La fortuna del mestiere di scrittore sta nella resistenza al chiasso, dunque permettersi il lusso del silenzio”, aggiungerei: Pure se la pentola sul fuoco brucia la cena. Perché essere scrittori in fondo è avere il sufficiente egoismo dell’altrove, dare retta all’impulso di scrivere mentre tutto attorno urla il gretto consueto.
Ciao Poeta, tanti kisses <3
Il tema della passività sotteso al concetto di speranza è controverso. Oggi più che mai. Ad esempio Bloch lo contrapponeva a quello di paura (emozione atemporale che se ipertrofica come nella contemporaneità imprigiona il progetto di mondo del soggetto): “L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono”. Esiste dunque una declinazione “combattente” della speranza, che fa i conti con le passioni tristi che ci schiacciano senza lasciare intravedere alcun passaggio ma, al contempo, non cede al mero idealismo. In questi tempi apparentemente uniformi di buio (il tetro capitalismo reale imposto quasi senza fatica dalle nostre controparti sociali), forse abbiamo bisogno di un nutrimento per continuare a scavare nella roccia.
La speranza… certo, non è facile mettersi d’accordo su cosa è per ciascuno di noi – però s’intende un possibile significato comune, uno stato d’animo che sostiene un desiderio – desidero farcela, cavarmela, sopravvivere, riuscire in una difficile impresa, muovermi in un ignoto, per esempio, e se il desiderio m’appare che stia per dileguarsi, spero, cioè lo sostengo con una specie di fede che anche questa volta… – potrebbe essere qualcosa così, ma la sua base forte, di fibra di nostra origine e nascita, la prima indimenticabile volta in cui fu salvezza per noi, la possiamo intravedere? eh sì. I bambini alla nascita, più o meno tutti, subito dopo il loro primo pianto e un primo riposo, presi in braccio dalla madre cercano il suo seno, e del seno il capezzolo – sola biologia? eh, no, troppo complessa, e decisiva, la situazione del prototipo di ogni migrazione. Lì, ne va della vita. Un correlato psichico va pensato, immaginato. Mi pare che fosse Bion, a parlare di presentimento che esista un seno.
Grande Camus! Grande Erri! grazie – In Valle continuiamo con Sisifo…ciau gigi