Comincio la salita da quota 1972 m.
Attraverso il bosco di larici fino a che smette e inizia la pietraia.
Mentre i passi si appoggiano al pendio si aggira nella testa vuota del primo mattino il numero scritto sul cartello indicante la quota: 1972. I decimali coincidono con gli anni che ho raggiunto. Insieme agli altri numeri formano una data.
Ne avevo 22, stavo in Lotta Continua.
Continuo a salire. C’è da usare anche le mani.
Com’erano le mie di allora? Ancora non si erano applicate a lavori manuali. Erano buone per suonare una chitarra.
Arrivato sul tratto ripido le mani ora reggono appigli, spingono il corpo in su insieme ai piedi. Toccano la superficie ruvida della roccia, sfruttano le sporgenze.
Il corpo va a memoria, la testa nei ricordi invece arranca.
Erano anni di pugni chiusi alzati nelle strade. Il singolo era immerso in uno schieramento.
Ora sulla parete ho tanto spazio intorno, sopra e sotto. Non lo chiamo vuoto, perché è pieno della materia che non sono io.
Nel 1972 il vuoto era tra noi e i poteri costituiti.
Raggiungo la cima che mi sono dato per traguardo, vedo intorno le altre già salite.
Una croce di metallo segna il confine tra la sommità del suolo e l’aria sconfinata.
Dimentico la quota di partenza che mi ha fatto venire dei ricordi.
Al ritorno faccio la fotografia che giustifica questa pagina.
Ciao Poeta, parli di montagna e gioventù, di mani che si spartiscono le età in modi diversi. Se penso alle mie che lavorano dall’età di 13 anni, e da decenni si affannano a eseguire troppi ordini, mi verrebbe da baciarle per ringraziamento, come baciavo quella di mia nonna quando cucinava. Quelle degli uomini, te l’avrò già scritto, hanno altre storie che le si appiccicano sopra, e le donne da quelle vi valutano letteralmente più di qualsiasi altro punto del corpo. Più degli occhi, del sorriso, dell’altezza, della patta dei pantaloni, sono le mani a parlarci. Dell’uso che ne fai tu per scrivere, per salutare, per toccare un foglio come quel giorno in tribunale, si avverte la delicatezza del chirurgo sopra una parte delicata, eppure anche lì una forza pazzesca e intrinseca le accompagna. Benedico quella forza ogni volta che ci parli di alpinismo. Dal balcone di casa vedo le Alpi ogni mattina, la corona di oro bianco che aveva sulla testa è diventata piccola piccola, i suoi laghi quasi pozzanghere. Intestarsi interamente la colpa dello scioglimento dei ghiacciai è l’ennesimo atto di hybris del genere umano, come se tutto dipendesse da noi nel bene e nel male, ma in questo la penso un po’ alla Leopardi, la Natura è indifferente all’uomo. Certo, è triste sapere che quando questa si sposta di lato non c’è modo di scostarsi altrove per scansare pericoli. Nonostante gli alberi che ha, Non ho mai amato molto la montagna se non in autunno. Vederla a distanza e così inaridita però, mi fa venire voglia di scalare il Monviso con un bicchiere d’acqua e coccolare una sorgente con una poesia, magari una delle tue, e dirgli “Tieni, bevi anche tu, questo te lo manda un poeta scalatore”. Torna presto, il tuo tappino.