Per un periodo della vita ho maneggiato castagni, per esattezza pali di castagno. Erano alti tre e quattro metri, la circonferenza superiore a due palmi di mano che non arrivavano a chiudersi intorno al tronco.
Mi sono capitati tra le mani a Napoli. La data spiega: autunno inverno ‘80 e ‘81, dopo il terremoto. Riabitavo la città dopo dodici anni di lontananze. Facevo il manovale in un cantiere di puntellamenti. I pali di castagno venivano montati a reggere soffitti e volte di vecchi palazzi lesionati. Tagliati di fresco trasudavano tannino, a pieno peso.
Un camion li scaricava con la ribalta dove poteva, in mezzo alla strada. Il frastuono di crollo scuoteva i nervi tesi degli abitanti. Al rumore improvviso di tuono e vibrazioni seguivano prima grida poi maledizioni.
Li portavamo a spalla nei palazzi e si cominciava il puntellamento dagli scantinati. Al buio i topi correvano tra le gambe, disturbati dall’intrusione.
Motivo di questa pagina e del ricordo: non so rimettermi al pari con quel trentenne. So che è capitato a me, ma oggi non so chi sia stata quella persona.
Per la gran parte dei ricordi riconosco un me stesso di prima, proseguito fino a quello di ora. In questo è di aiuto la scrittura che produce continuità. Per altri ricordi invece non so più chi sia stato l’uomo adattato a quella vita.
Mi accorgo per via di invecchiamento che dentro di me si sono accumulate svariate persone. Con alcune ho perso confidenza.
Nella pausa di mezzogiorno leggevo un libro in disparte dai compagni di lavoro. Questo mi permette di riconoscermi, ma il resto: gli scantinati putridi, i topi, gli sforzi per issare nello stretto quei pali, incastrarli in basso e in alto, il salario misero, senza contratto, in testa un berretto di carta per la polvere, niente casco, nessuna protezione, forza lavoro e basta.
Chi accidenti era l’io di allora?
Oggi incontro immigrati a far lavori di fatica a bassa paga, fuori di contratto. Non mi viene di identificarmi, non mi sale ricordo di me stesso.
È stato invece un albero di castagno, la sua ombra e il vino che ho bevuto lì seduto sotto, a presentarmi un uomo di trent’anni che per fortuita vita fu me stesso, uno straniero.
“È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire” (Céline)…
E poi pensare a sé stessi come ad un antenato a cui indirizzare le proprie parole: non è detto che si debba capire sempre tutto delle pagine dimenticate.
Napoli come Venezia, sorretta da pali…
Ho riletto più volte le tue parole cercando di ribaltare su di me i concetti.
NO. Io sono completamente agli antipodi. Ripercorro i miei ricordi e ritrovo sempre me stessa, con le beatitudini dell’infanzia, l’incoscienza dell’adolescenza, la spensieratezza della giovinezza, la serietà dell’età adulta, e ora la sfrontatezza dell’età senile, età finalmente libera dal dover essere e dal dover apparire.
Mi sento a volte straniera nell’epoca attuale, ma mai con me stessa.
Sempre bello leggerti, anche quando dissento.
Bello essere stata felice, incosciente e spensierata! Per questo, penso, non sei stata mai straniera a te stessa.
Ottimo testo. Riaccende il brivido che fa vedere la città scassata e la paura pronta a un altro giro. E sorprende il me stesso straniero; mi appartiene ed è altro da me.