Un libro di studio delle croci di vetta delle Dolomiti, scritto da Ines Millesimi, mi da lo spunto per una divagazione.
Nell’aula scolastica il crocefisso stava, non so se sta ancora, insieme alla foto del presidente della Repubblica. Rappresentavano per me le autorità che da lassù calavano fino al preside, agli insegnanti e ai bidelli.
Invece di incutermi rispetto mi suscitavano fastidio.
Da non credente che gira per montagne, la croce sulle cime non mi suggerisce nessuna parentela col patibolo del Golgota, dove i pali di supplizio erano tre.
Invece mi fa da segnale di dove termina la salita.
Ho percepito il sacro in vari luoghi e momenti, non in cima a una montagna.
Nelle parole delle scritture che diventano preghiere trasmesse da una generazione all’altra, accompagnando feste, lutti, invocazioni.
Non trovo il sacro negli edifici, chiese, sinagoghe, moschee. Ma in qualche guerra che ho attraversato l’ho riconosciuto nelle macerie, nei crolli delle distruzioni. Sparso al suolo tra i calcinacci, il sacro si manifestava denunciando la blasfemia della guerra, la bestemmia contro la vita.
Ho visto il sacro nelle scialuppe di salvataggio calate alla raccolta di vite che stavano affondando. Il sacro che riusciva a scipparle dall’annegamento, dichiarava la sua impotenza a salvarle tutte e ancora.
Ho toccato il sacro nei resti, negli scarti, nelle briciole.
Ma forse sono io che non lo so vedere in nessun simbolo, bandiera, pulpito, altare e neanche in cima a una montagna salita.
Ma una volta ho visto una croce di vetta abbattuta da un fulmine. Stesa tra le rocce e la neve a braccia aperte era d’inciampo, un corpo scartato, a immagine e somiglianza di chi, salito, non è più disceso.