Cosa ci faccio qui? Chi mi ha mandato se ne sta lontano, siede al suo posto a tavola. Cosa ci faccio qui? Scavare una trincea intorno a una centrale nucleare, in un villaggio, un posto di passaggio, una fermata lungo l’avanzata. Non è la mia città, non è il mio fiume, è la patria di un altro, la casa che ho forzato come un padrone e un ladro. Ci sono le sue cose, il letto, le donne cha ha lasciato, stuprate senza dire una parola, mute per conservare illesa la voce della loro lingua madre. Ho fatto giuramento di non profittare, per scongiuro, in offerta al dio di questa guerra che accolga il mio rifiuto e mi risparmi. Potessi essere vecchio, impugnare un rastrello, ripulire il viale, riparare il tetto, mettere nel cesto le patate. Essere vecchio, per dire al nipote che una volta c’era un giovane che in una notte chiese la fine della guerra. In cambio offriva il resto della vita, ritrovandosi vecchio il giorno dopo. I miei compagni sopra le donne mute sfogano il terrore di morire. Sono uscito all’aperto, ho acceso un fuoco perché qualcuno veda e punti la granata su questa casa d’altri che abbiamo conquistato. Cosa ci faccio qui? Non sono disertore, non ho disobbedito. Ma nessuno mi vieta la fiamma di un segnale che qui ci siamo noi, i peggiori intrusi. In un angolo del giardino seduto sopra un’altalena aspetto la granata che pareggia i conti. In questo modo so cosa ci faccio qui. |
La presenza della guerra, come l’esistenza di Dio, è una domanda perpetua, una domanda che insegue la remota possibilità di un riscatto e di una risposta.
Questa poesia straccia il cuore. Grazie Erri per averla scritta.