Al Centro San Fedele di Milano sono invitato a intervenire sulla rottura del tempo di pace. Qui ne riporto un passaggio.
“Macbeth ha ucciso il sonno”: la frase di Shakespeare circoscrive in un singolo effetto l’avvento di un tempo di guerra.
Il suono della sirena di allarme aereo, ululato di lupi amplificato da mille megafoni, le corse precipitose nei ricoveri, le esplosioni che scagliano l’aria spostata a schiacciamento di corpi, poi di nuovo il suono del cessato allarme: scuotono i nervi e uccidono il sonno.
Al suo posto si avvicendano brevi crolli di sfinimento, che non risarciscono la perdita.
Mia madre ha avuto il sonno spezzato a vita, svegliandosi tutte le notti con l’incubo del suono della sirena, penetrato in lei come un congegno a orologeria.
Io l’ho sperimentato nelle notti di Belgrado del ’99, bombardate da ordigni vari della NATO. Mi trasferii per rigetto d’intolleranza contro chi bombardava di nuovo nel 1900 i centri abitati .
Nelle notti e giorni di Belgrado condivisi l’insonnia di una città bersaglio. Non scesi nei ricoveri per vergogna di appartenere al paese da cui decollavano i bombardieri.
In una canzone napoletana c’è la frase dell’innamorato che ha perduto la pace e il sonno. Succede anche per catastrofi personali.
Pace nella lingua originale della scrittura sacra è shalòm, da una radice che indica integrità, pienezza, fisica e affettiva. È un saluto e un augurio insieme.
La sua rottura ha l’insonnia tra le sue conseguenze.
Nomino qui solo questo dettaglio per rappresentare l’avvento del tempo di guerra.
Foto: Molo di Odessa sul Mar Nero