Prima ancora di salire al nord, alle fabbriche, alle colline, al vino di Piemonte, io ne sapevo già. Da un rigagnolo in cui viaggiavano teste di alici e risciacquo di panni, un ragazzo di Napoli risaliva a città e luoghi altrui, che un giorno avrebbe abitato.
Assorbiva da Cesare Pavese un anticipo del suo futuro. Si risale al proprio avvenire solo da ragazzi, se si è abbastanza ciechi da ignorare il più insolente cielo sulla cima dei vicoli standosene chino sopra le foglie di un libro. Sì le foglie, i libri con le poesie hanno quelle al posto dei fogli. E i poeti sono corsi d’acqua e un conoscere i fianchi delle colline, così diversi dai profili di crosta colata e rappresa di un vulcano. E conoscevo le osterie di Torino, le piole, prima di metterci piede, già avevo annusato dalle pagine di Pavese l’aria riscaldata dal tabacco dei fiati, le voci timbrate dall’aspro della Barbera giovane. E un anticipo di nostalgia mi addestrava una volta per tutte a non averne più. Non è più attecchita la nostalgia dopo quella trasmessa da Pavese. Così molti anni dopo vennero le domeniche in gita per le Langhe sulla macchinetta catarrosa della ragazza, dopo la settimana in fabbrica. Autunno che ora ha più di vent’anni: vedi questo è il paese di Cesare Pavese, diceva, e io dicevo questa è la mano di un lettore di Cesare Pavese, e gliela mettevo addosso mentre guidava, sbandava, rideva. E c’era un’osteria che faceva salire in camera dopo pranzo e lì il Dolcetto delle mani scorticate di quelle colline si concentrava in un punto del corpo e ci davamo pace a forza di abbracci. E poi quattro passi prima di sera tra le vigne sfruttate e al ritorno in paese l’odore di mosto nelle vie. Potevo stare lì, con la ragazza di Torino, perché avevo tenuto Pavese per la costola di un libro un’edizione di «Lavorare stanca» acquistata da mio padre, che preferiva però la sua prosa. Io invece no, io so di Pavese che è stato poeta e basta, così come un uomo è marinaio e basta anche se poi è atterrato e si è dato ai campi e alle stalle. Come un uomo assassino anche se è stato solo un anno, un giorno, in questa malora.
Pavese: il nome mi mette addosso la calma, quella che gli sfuggì negli anni che dovrebbero piantare un uomo al suolo, gli anni adulti, a guerra superata.
Invece gli sembrò insopportabile avere quasi quarantadue anni e si volle interrompere nell’anno millenovecentocinquanta, mio d’inizio. Oggi sono più anziano di lui, un fratello maggiore, bevo il suo vino e ricordo.
È molto avere un anno in comune con lui, è molto per me dichiararmi suo contemporaneo anche se per un ciuffo di pochi mesi. Per forza mi doveva toccare in sorte una stanza a Torino, un lavoro con quelli venuti da sud a stringere un salario in cambio di tutta la forza che avevano in corpo, in cambio del sonno strappato da un branda e trapiantato su un seggiolino di tram del primo turno. Quanto di coraggio e di voce hanno trovato per fermare le linee, imparare a chiedere così, a braccia incrociate, a officine spente. Questo lui non ha fatto in tempo a vederlo, a scrivere di uomini stanchi che
smettono la pazienza, s’induriscono, si trasformano in classe con urgenze di sollievo, salute, dignità in contrasto con la disciplina di quel lavoro salariato. Quello non l’ha visto, però ha fatto in tempo ad avvisare un ragazzo di dopo, uno dei suoi posteri, avvisarlo con i versi di chi ha avuto il proprio campo nella guerra civile, nella rivolta armata degli antifascisti: «Tu non sai le colline dove si è sparso il sangue». La gioventù di dopo ha voluto sapere, ha chiesto conto di quel sangue nell’Italia del dopoguerra che voleva dimenticarlo e ancora sparava in ordine pubblico contro operai e braccianti. Sono di una generazione che si è sentita erede di quel sangue. I poeti sono corsi d’acqua e un ragazzo li può navigare avanti e indietro e acciuffare per il bavero di un verso il passato altrui, il futuro proprio.
Pavese scorre tra la Bormida e il Tanaro, tra Santo Stefano Belbo e una stanza dell’Hotel Roma di Torino e traducendo Melville è andato a sfociare in tutti i mari del mondo.
Erri com’eri
quando l’erre, che mancava per essere, serviva la comune parola
Rivoluzione, a cui credevamo insieme.
“La rivoluzione comincia da se stessi.” Lo diceva pure Mao…
o era Gesù?
la cosa più bella letta di quelle scritte su Torino (e Cesare Pavese) effeffe
” i poeti sono corsi d’acqua” :
le scritture e i pensieri e le emozioni di Erri si fanno navigare e ogni volta si ritrova il suo ,il nostro passato e la porta sul futuro della poesia cioè della vita
Un grande apprendistato dai libri alla vita e viceversa. Un racconto necessario, la città che perde pazzi e identità ha un debito 2morale e letterario” con Lo scrittore. Erri De Luca racconta quella Torino dove sapere e vedere, si scambiavano la mano e il testimone. Bellissimo racconto da immedesimarsi, malgrado la programmata resistenza: “Si risale al proprio avvenire solo da ragazzi, se si è abbastanza ciechi da ignorare il più insolente cielo sulla cima dei vicoli standosene chino sopra le foglie di un libro. Sì le foglie, i libri con le poesie hanno quelle al posto dei fogli…”
Sono torinese da 50 anni. Arrivai a torino da Reggio Calabria nel 1958 a quattro anni.Condivido l’amore per le colline senza tempo delle Langhe (e del Monferrato) come l’amore per Pavese. Se le colline che ha descritto esistono sempre è la sua Torino operaia che non esiste più. Il mio padrino di cresima, che con me visse l’esperienza del comitato di quartiere autogestito, quando le sezioni del PCI, della DC e del PSI erano dei presidi sociali importantissimi – veri gangli nervosi della comunità-, passeggiando per via Maddalene nel quartiere torinese del Regio Parco e riflettendo sui suoi profondi cambiamenti, mi disse questa cosa fulminante che trovai profondamente vera:<> Fabbriche e officine significavano lavoro, fatica sofferenza sì ma attorno ad esse si formava una comunità solidale e combattiva con valori culturali, politici, morali forti. Oggi le vecchie fabbriche e le boite non ci sono più e anche quei valori che attorno ad esse e a certa cultura del lavoro si coagulavano. In compenso si è molto più soli.