“Il mare ha una sua tenebra pesante in cui le chiatte s’impeciano: nel rumore sordo delle travature resiste la stiva della terra ove dormono gli assassini”. Ricopio queste righe di Alfonso Gatto, poeta, da un libro che fu di mio padre. Il titolo della pagina è :”Uomo di mare”. In questi giorni d’inverno mi ritorna a ondate il desiderio di ascoltare il mare sbattere il bianco sopra le pietre, come facevano le lavandaie di un tempo.
Ho già scritto dei nostri poteri che chiamano “ondate” i viaggi dei nuovi migratori che scavalcano deserti a piedi, i mari su barchette, le espulsioni in manette. Per spirito di correzione e di contraddizione li chiamo invece flussi. Già con l’impiego di questa parola si trasforma in crimine la loro strozzatura. Sono flussi di nuova linfa dentro un albero stanco, trasfusioni di sangue in un organismo anziano che ha smesso di fare i lavori duri. Sono flussi che immettono gioventù in un corpo sociale che si estingue più di quanto si riproduca con nascite nuove. E’ in corso una giustissima proposta di legge popolare per il diritto di cittadinanza a chi nasce in Italia. Il riconoscimento ovvio, è italiano chi nasce in Italia, è ignoto ancora al nostro ordinamento.
D’inverno più che in estate penso al mare. E’ stata l’antica via per conoscere il mondo , che è maggioranza d’acqua. I popoli lo hanno percorso per allargare i loro orizzonti. Vengo da una città, Napoli, fondata dai Greci. Prima di loro già i Fenici videro il golfo ma non vollero aprirci una bottega per timore del gas esalato dalle viscere fumanti del vulcano. Prima di loro già i Fenici videro il golfo ma non vollero aprirci una bottega per timore del gas esalato dalle viscere fumanti del vulcano.
“Navigare es preciso” dicono i portoghesi che nel loro vocabolario sta per “necessario”. Dal mare sono venuti a noi eserciti d’invasione e mercanti di spezie, pirati e religioni, epidemie e nozze. Il mare ha rigirato i nostri semi come i numeri dentro il paniere della tombola. Siamo tutti pezzi unici, noi numeri del Mediterraneo, ma apparteniamo alla stessa estrazione.
Il mare ha deciso della nostra storia attraverso le migliaia di chilometri di coste. Il mare ha costretto la fluviale Roma, esperta di ponti e di idraulica, a dotarsi di flotta militare e navigare. Il mare ha imposto le sue regole a chi lo ha affrontato. Perciò sopra una nave il capitano è l’ultimo re assoluto esistente al mondo. Noi italiani siamo eredi di repubbliche marinare che si conquistarono indipendenza dai regni di terraferma. Batterono moneta scambiata in tutti i porti del Mediterraneo, conquistarono isole allargando confini. Furono repubbliche, rare e esemplari nel Medioevo, ma in mare assegnarono monarchia illimitata al capitano dell’imbarcazione. Il privilegio coincideva con la più esigente responsabilità: era padrone ma pure colpevole di tutto.
Solo di recente esiste la navigazione da crociera, per il buon piacere di andare per mare. Anche se per svago, non per questo il mare si ammansisce. Chi s’ imbarca resta in minoranza e in inferiorità tra i pericoli del largo. Futile può essere il motivo di prendersi il rischio di un passaggio sotto costa per vedere le luci di un’isola e per farsi vedere. Futile l’occasione, non il pericolo che in mare ci sta sempre. Futile il motivo, non il naufragio che è tragedia antica e sempre pronta. Nel Mediterraneo del sud è affondato l’equivalente in barconi di dieci Titanic. Il mare è forza pura, semplice e severa.
Abituato a reggersi in equilibrio sulla superficie di un’immensità liquida “l’uomo di mare non ha paura di nessuno”, secondo un altro passo della pagina di Alfonso Gatto. Nella nostra storia abbiamo assistito alla fuga di un re, l’8 di settembre del 1943. Un capitano in fuga precipitosa dalla sua nave e al posto di altri passeggeri , non era ancora apparso a raffigurarci all’estero. Le televisioni del mondo ne parlano e senza la premura di contenere i danni e le responsabilità di una compagnia di navigazione. Al capolinea di molti secoli di nostra storia marinara è arrivata a sigillo l’immagine di un capitan fellone. Non è solo il naufragio di un sontuoso bastimento, ma di una rispettabile civiltà del mare.
Erri
Regata dal veneziano regatàr forse dal latino recaptare comp. di re e captare, intensivo
di capere ‘ prendere’. Forse il poeta non regala ma prende le emozioni, come il mare pren-
de i corpi e le anime di persone che lo attraversano………Troppe parole mi regalo il silenzio.
‘In questi giorni d’inverno mi ritorna……..’ Non è forse uno dei compiti del poeta regalare emozioni? Grazie con questa frase oggi me ne hai regata una.