Alberto Savinio, scrittore e pittore, pubblica nel 1943 una sua personale biografia del norvegese Enrico Ibsen. A inizio dell’opera scrive: “Norvegia è l’ultima Grecia dell’Europa”. Poco più in basso spiega la sua idea di Grecia: “S’intende la facoltà consentita a taluni popoli e negata ad altri di intelligere la vita nel modo più acuto e insieme più astuto, più lirico e insieme più frivolo”. Nella lettura ho sovrapposto Napoli alla definizione e combaciava. La Grecia definita da Savinio metteva a fuoco il mio posto di origine e partenza.
Oggi la parola Grecia è diventata uno spaventapasseri bancario, citata per scongiuro. Il suo indebitamento è dichiarato proverbiale come le calende greche. Non sono mai esistite nel calendario greco le calende e non è suo neanche il debito, che è invece europeo.
La gran parte della popolazione oggi si concentra, cupa e risentita, addosso a Atene, asfissiata dalla sua grandezza.
Ma lontano da lì, nel vasto arcipelago della civiltà mediterranea, la Grecia è illesa.
Porta il nome di una nobiltà scesa sul lastrico, senza perdita di portamento. I panni rattoppati non umiliano i tratti di chi fu beniamino degli dèi. Un passeggero sbarca nel sottovento di uno dei suoi moli e sente di poggiare la pianta sul suolo calpestato dalle divinità imparate a scuola. In quell’epoca della mia vita ho amato la mitologia, composta da
idoli dimissionari che accettarono di darsi per scadute. Apprezzavo la discrezione per la quale non volevano la maiuscola per la parola theos. Fraintendevo: gli dèi non sono deperibili.
La loro eternità sta nella luce di un’alba sul mare, non sul frontespizio di un altare. Gli dèi della Grecia sgomberarono l’Olimpo e si dispersero nella bellezza. Così posso ascoltare Poseidon nella camera d’aria di una conchiglia, tocco Zeus in una capra che allatta il suo cucciolo, riconosco Artemide nell’aquila che fa il suo giro in cerca del coniglio selvatico. Gli dèi li riconosco al naso, basta il sapore salmastro di una barca in secco.
La Grecia è il granaio del dizionario. Inculcata al liceo la sua grammatica, l’ho persa, con servando solo il raccolto dei suoi vocaboli che mi permettono di giocare all’etimologia. Risalire a metafora che era trasporto, a grafèin che era incidere, il greco rifornisce dall’alfa all’omega il mio vocabolario: da àbaco a oroscopo. Una lingua europea è esistita e resiste seminata nei dizionari del continente Europa. E siccome era poco aver dato anche il nome a questo suolo, ecco che il suo alfabeto se n’è andato a colonizzare quello russo, che si chiama cirillico da un apostolo di Tessalonica. Quando ho iniziato a studiarlo, verso i cinquant’anni, mi sono risparmiato buona parte della novità. La Grecia consente di filtrare l’Asia.
Ha inoltre accolto la novità ebraica del cristianesimo e l’ha recapitata per il mondo. I Vangeli, una storia orale in aramaico, sono diventati Bibbia grazie allo smistamento via Atene. Bibbia è parola sua.
E risaputo che in greco classico non esiste una parola che traduca il senso del termine religione. Non perché ne sia privo, ma per l’opposto: ogni materia, vita, divinità, è iscritta dentro la circonferenza della religione, rilegatura in senso letterale, premessa di tutte le cose. Esse stanno insieme, coincidono nel tempo e nello spazio. È per il greco un’evidenza fisica, più che un sistema di pensiero srotolato a nastro da qualche innamorato del sapere, alla lettera filosofo. Religione è l’effetto che fa la bellezza mediterranea ai suoi inquilini.
Sbarco su una sua isola, subito desidero togliermi le scarpe. La libertà del corpo è un bisogno di aderenza al suolo che parte dal basso. Sbarco e il bianco di calce mi assorbe, come una carta fa con la goccia di inchiostro che su di lei si espande. L’azzurro degli infissi è un collirio per gli occhi, lubrifica e consola. Sventola una bandiera che imita una finestra. Ecco che uno da Napoli si aggira scalzo sulla pietra tiepida e riconosce sotto la pianta la carezza fle grea di un comune sottosuolo soave e catastrofico. Ecco che dalle bracciate a nuoto sui fondali eruttivi dell’Egeo, risalendo scogli di stesura lavica, riconosco il sistema vascolare che collega i vulcani del Mediterraneo. Riconosco le danze in faccia al mare, la festa esorcista del terrore che cerca di ammansirlo con la musica e il succo della vite, raccolto dalle mani e spremuto dai piedi.
Ovunque intorno gli dèi assistono, parteggiano, si azzuffano indifferenti alle croci parafulmini di cappelle e chiese accovacciate in piazza e sulle alture. Loro, gli dèi, scaturirono da Cronos, Sua Maestà il Tempo. L’esilio dagli altari non li estirpa, anzi li diffonde. Ne rivedo impronta nel pescatore che rammenda la rete sul molo del porto. Cuce, ma anche accarezza, prega, maledice, appoggiato con la schiena al vento. L’asino accanto rimugina il fieno e i colpi di bastone, il gabbiano galleggia in aria e oscilla come la boa nell’acqua: vedo i fili di ragno, luccicanti, che tengono insieme quello che vedo.
Più tardi stringo la mano al sindaco che ha inaugurato la raccolta dei rifiuti secondo i differenti smaltimenti. Vedo l’arrivo della nave cisterna che viene a rabboccare i serbatoi asciutti, a dare peso all’acqua. Vedo seduti alle tavole del bar gli uomini che sparlano e le donne che passano vestite delle quattro virtù della regola scettica. Una: in sospensione dei pacchi della spesa e in sospensione di qualunque giudizio; due: sdegnose di sputare una sentenza; tre: indifferenti alle alternative; quattro: sovra- ne del sistema nervoso e perciò imperturbabili. I filosofi ci misero dei secoli a mettere un nome al comportamento femminile, tentando imitazione e timbrandolo con la parola skepsis.
Le donne greche obbediscono per consuetudine a una concessione di se stesse al genere maschile. Ma s’intende al volo che vivrebbero meglio senza e anche da sole sarebbero feconde. Il maschile è un loro accessorio domestico, un marmocchio ingrandito che succhia l’anice fermentato anziché il latte.
Scrivo di Grecia perché provengo da Napoli, stazione di smistamento marittimo come è stata Atene. Scrivo di Egeo perché sono cre sciuto d’estate sopra un’isola del Tirreno. E si cresce solo d’estate, con le ossa dello scheletro nutrite dalla luce. Scrivo di Grecia per contraddizione di banchieri che la denigrano a spau racchio. Infine scrivo questa nota per gratitudine di scrittore che getta la sua rete nella vastità gratuita del suo vocabolario. E’ un debito non rimborsabile.