Al Salone del libro di Torino ho partecipato alla consegna dell’unico premio letterario che condivido. Intitolato a Goliarda Sapienza, raccoglie storie scritte da persone detenute. Non sono della giuria, la mia presenza da molti anni consiste nello stare da pubblico testimone di questa volontà di scrittura.
Promuove, organizza e cura la raccolta e la manifestazione Antonella Bolelli Ferrera, che nel corso delle varie edizioni ha messo insieme più di tremila racconti.
La prigione è l’ultimo posto in cui si scrive ancora e solo con la penna e il foglio. È l’ultima buca della lettera chiusa nella busta e affrancata. Il verbo affrancare qui ha il suo valore doppio, perché la scrittura affranca. È un atto che impegna la coscienza a fare i conti tra la vita affannata e la sua tregua scritta. Affranca dalla condizione d’inferiorità e di restrizione, perché chi sta scrivendo è libero, è alla pari e sta per la durata di quel tempo altrove. Per me che leggo, il suo valore aggiunto sta nella pagina che scavalca e annulla muri e sbarre.
Il tema di quest’anno ha per titolo Mala Follia, storie che hanno debordato oltre la pena, ammalando nervi, sconquassando la percezione della realtà. Sono racconti di vita sconfinata oltre la causa della detenzione, avvitata dentro un isolamento ancora più profondo.
Quando è toccato a me dire qualcosa ho ricordato il filosofo calabrese Tommaso Campanella (1568-1639), il più incarcerato della storia della filosofia. Accusato di eresia, rinchiuso per ventisette anni, si finge pazzo per non farsi arrostire in piazza come il suo coetaneo Giordano Bruno. Sottoposto a tortura per smascherare la simulazione, raggiunge, sotto le mani dei carnefici e dei loro strumenti, l’eroica perfezione di ridere.
L’esempio mi rappresenta la follia come una forma estrema di difesa contro il tempo e il mondo, un arrocco in se stessi per rendersi inespugnabili.
Le storie di Mala Follia trasformano la psichiatria in letteratura. Patrizia Durantini narra il sintomo di guardarsi fissamente allo specchio senza riconoscersi. Lo scrittore che si firma Edmond riferisce di un colloquio con una dottoressa che ascoltando le sue dissociazioni e i comportamenti derivati, commenta: ”Ci vuole coraggio a vivere”, a sottintendere che la follia è una fuga, dunque un atto di rinuncia a battersi.
“Se ci lasciassero vivere, sarei d’accordo con lei”, risponde Edmond.
Sopra la fossa dei leoni del disadattamento difensivo, la normalità guarda dall’alto, al sicuro dietro il parapetto e giudica e condanna.
Buon compleanno Erri!
manca un se-se si è ancora sufficientemente innamorati del mondo-
Nel mio caso è un se inutile.Lo sono.Un abbraccio
Buon compleanno Erri.E’questa un’età che ,seppure a occhi aperti,si è ancora sufficientemente
innamorati del mondo,si può dare e ricevere con una leggerezza finora sconosciuta.
A proposito di pregiudizi della normalità come disturbo ossessivo-compulsivo-Leggere l’articolo di Michele Serra su Repubblica di oggi
-NON è CHE UNO SI SVEGLIA E AL POSTO DELLA CATTEDRALE DI ARLES TROVA I TUCUL.TROVERà,SEMMAI,PARECCHI AFRICANI NELLA CATTEDRALE DI ARLES.
SE ANCHE QUESTO GLI ARRECA DISTURBO BEH NON è UN PATRIOTA,è SOLO UN RAZZISTA-
Considerato che c’è un’unica razza ,quella umana,beh si devono trarre conseguenze logiche….il razzista che gira indisturbato tra di noi è un malato bisognoso di cure,lui sì pericoloso.
Perdonate il doppio! Si potesse rimediare all’impazienza che suscita l’invio di un commento!
“Gli dèi sopportano e permettono nei re cose che aborriscono sul cammino dei furfanti.”
(Edgar Allan Poe, il folle che consigliava di mettere la camicia di forza a qualunque matto che dimostrasse di aver riconquistato la ragionevolezza)
(… Perché non potrebbe che restare un folle, alienato da sé stesso e a sé stesso sconosciuto, se non restituisse la libertà ritrovata nell’armonia che la scrittura ha conferito a tutto un mondo interiore, devastato dal silenzio, dalla mancanza di condivisione di parole tra sé e il cielo.)
(… Perchè non resterebbe che un folle, alienato da sé stesso e a sé stesso sconosciuto, se non restituisse la libertà ritrovata nell’armonia che la scrittura ha conferito a tutto un mondo interiore, devastato dal silenzio, dalla mancanza di condivisione di parole tra sé e il cielo.)
Conosco la forza della scrittura che sa raccontare l’indicibile.
Ci arrivano voci scritte o sommesse o urlate di chi sta dentro a gabbie più piccole e meno comode delle nostre.Perchè ogni pregiudizio di normalità è in fondo una gabbia.
Kafka-Noi non siamo peccatori soltanto perchè abbiamo mangiato dall’albero della conoscenza,ma anche perchè non abbiamo mangiato dall’albero della vita.Peccaminosa è la condizione nella quale ci troviamo,indipendentemente dalla colpa-Il mondo ,di cui siamo parte,guarda dall’alto per non guardarsi in faccia.Ci vuole coraggio per farlo.
Saremmo costretti a cambiare la nostra vita.E assumercene la responsabilità.Di questo mondo fuori dai binari
“La scrittura affranca…”.
Molti anni addietro la lezione su Campanella fintosi pazzo per fuggire il rogo, aggiungeva che una volta decretata, la follia non poteva essere ritrattata dal tribunale, ragion per cui si racconta appunto a lezione e per aggiunta universitaria, che Campanella rivolgendosi ai giudici abbia fatto il ben noto gesto poi detto dell’ombrello. Poi venivano aggiunti altri particolari sulla vita carceraria di Campanella, alcuni destavano anche un po’ di ilarità…forse per alleggerire le lezioni… Con questo nulla voglio togliere alle bellissime “inespugnabili” riflessioni che così hanno anche risvegliato i miei ricordi.