Il primo sabato del mondo è narrato all’inizio del secondo capitolo della Genesi (Bereshìt in ebraico): “E furono terminati i cieli e la terra e tutte le loro schiere. / E terminò Elohìm nel giorno, il settimo, la sua opera che fece. E cessò nel giorno, il settimo, da tutta la sua opera che fece. / E benedì Elohìm il giorno, il settimo, e lo santificò” (la traduzione letterale dall’ebraico è mia). Sabato viene da shabbàt, “cessare”.
E l’interruzione solenne accompagnata da silenzio e da benedizione. Altrove la divinità dice che sua è la terra e l’umanità appena un’inquilina. Altrove dice che il sabato appartiene alla terra. Da lettore di quella lingua originale ammiro che i due verbi di custodia e culto dovuti alla divinità, sbamàr e avàd, sono gli stessi impiegati per il lavoro umano sopra il suolo, a intendere che la devozione e l’intenzione sono le medesime. La specie umana sta sulla superficie del pianeta in sospensione tra la terra e il cielo. Un tempo questo sentimento faceva chinare il capo. Una moderna presunzione fa credere oggi di essere condomini di uno stabile e di poterne disporre.
Da marmocchio di città, ingolfato nei vicoli cupi dove il bucato ci metteva giorni a sgocciolare, d’estate ero d’improvviso scaraventato su un’isola, sbattuto a piedi nudi davanti agli orizzonti. Gli occhi ci mettevano dei giorni a prendere le misure all’infinito. La pelle di città cadeva a pezzi, spuntava quella a buccia di carrubo. Il mare incalzato dai venti non era una piscina, la natura non era un parco giochi, ma il dorso di un gigante che fumava di zolfo, sobbolliva di fanghi, cancellava spiagge in una notte, inghiottiva pescatori e barche.
Il mare m’insegnava la migliore soggezione, dovuta alla sua maggioranza nel pianeta, non la soggezione fasulla verso i poteri costituiti in terraferma. Devo alle scogliere la notizia che il colore intimo del mare è il bianco, la sua verità che affiora in seguito all’attrito e all’urto. Più tardi ho conosciuto le montagne, praticando alpinismo su pareti immerse nel vuoto. Sulle superfici a picco vedo il mondo com’era prima del nostro avvento e come sarà dopo la nostra scomparsa. Lì so con la migliore evidenza fisica di essere un intruso, senza licenza, visto, invito. Lì governa e avviene lo shabbàt, sabato e cessazione del nostro intervento sulla terra, che non è madre ma serva asservita e riserva raschiata fino in fondo alle viscere.
L’aquila che galleggia sopra le correnti ascensionali è lì da così tanto tempo da permettersi indifferenza a noi. In terra sta in esilio nel residuo di spazio che lasciamo, in aria è vela al vento. Da lei intuisco che la libertà comincia dove noi smettiamo e che ha una spinta dal basso verso l’alto.
(Foto di Paola Porrini)
Mi piacerebba tanto sapere cosa pensa Erri della traduzione e interpretazione dell’antico testamento fatta da Mauro Biglino. Se e’ vero che ogni traduzione e’ un tradimento e’ pur vero che le gradazioni del tradimento (come le difficolta’ delle scalate) possono essere varie. Noi semplici lettori (e non decifratori) possiamo solo chiedere lumi.
Ecco ben spiegato il giorno del riposo, con la chiarezza di sempre e col piacere di apprenderlo. Grazie Erri
è sempre un piacere leggerti, le tue parole cullano.