Ho un ricordo d’infanzia di Isabella Ducrot.
Attraversava la strada e veniva a trovare mia madre, abitavamo nel palazzo di fronte, ha figura snella, bionda, una voce che arrivava a me scendendo dai capelli lisci. Da marmocchio ero sensibile alla bellezza femminile più di quanto lo sono stato da adulto. C’entrava il nervo e il sentimento della meraviglia, che crescendo si appanna.
Molto tempo fa fui invitato a una cena da lei, facevo già lo scrittore e ancora l’operaio. Ho il ricordo di una casa solenne, di un mio congedo appena dopo cena. Quando ho ricevuto da lei la richiesta di scrivere un accompagnamento al suo raccolto di racconti, ero certo che avrei rifiutato. Dopo la morte di mia madre evito le sue amiche. Per scrupolo ho cominciato a leggere e ho cambiato idea, eccomi a scrivere il resoconto di una lettura personale in margine alle sue pagine. In questo c’entra Montedidio, che anche lei scrive tutt’una parola, perché per noi suoi abitanti è nome comune di luogo speciale. Fu altura fondata nel nome di tutt’altre divinità, molteplici e telluriche, edificata con pietre di eruzione. La cristianità l’ha ricoperta col nome grecolatino della divinità monoteista ebraica. Montedidio è titolo che spetta a Gerusalemme, noi abbiamo abitato una contraffazione. Napoli, golfo e alture, non appartiene al cielo ma alla geologia. Il nostro sistema nervoso è accordato sul ringhio del vulcano e sul tamburello del suolo. Non ho mai saputo finora della tisi di Isabella. Mia madre, che ne fu di certo a conoscenza, non ha tradito il segreto della sua amica, neanche con me. Ho preso da lei l’impenetrabile necessario dei segreti, la consegna al più sigillato silenzio. La tisi, il maldipetto, era allora una lebbra, come la sifilide, Isabella ne scrive con la grazia leggera che ricopre le cicatrici, dove la pelle di rimarginazione è più liscia, senza grinze. Così dev’essere la scrittura, così è la sua. La sua salita in autobus all’ospedale in collina era esercizio di clandestinità, anonima e furtiva. Lassù in collina, il quartiere del Vomero, per noi di Pallonetto, Santalucia, Montedidio, era l’aldilà, un entroterra di caseggiati nuovi. Quella modernità era posticcia e di imitazione. La cura del pneumotorace era lenta, la durata di una condanna da scontare, di fine pena incerto. Per Isabella fu di sette anni. Ne racconta la fine, il congedo dalla donna che la curò severamente, convinta del successo. A pena espiata era, oltre che sana, libera. Poteva baciare senza procurare contagio, poteva sposarsi, avere figli. Poteva andare al mare e sdraiarsi al sole. Altri racconti, i più graditi a me, passano sulla sua gioventù con un tampone asciutto che disinfetta il tempo. La sua scrittura ha un morso che le dà un passo governato: se mai c’è stata la tentazione di una nostalgia, è stata rimossa come un foruncolo. Il suo pudore è tagliente. Così la narrazione di Isabella scorre nel doppiofondo dei miei occhiali e mi riporta a una stanza dì origine, a un palazzo di fronte al suo. Così resto affacciato da dirimpettaio sopra le storie di Isabella Ducrot, ragazza di Montedidio.
Bellissimo reso-racconto. Tutte le volte che Erri De Luca torna a poggiare lo sguardo sul suo Montedidio esercita un prodigio, accresce la mitomagia del luogo… Adesso occorre rintracciare la scrittrice, che come scrive Erri De Luca ha filo da tessere…