Una frase dei muratori di una volta diceva: “Costruiamo la casa agli altri e la nostra rimane un progetto”.
Ho lavorato nei cantieri edili da operaio per molti anni della mia vita. Agli inizi ero un manovale. Esistevano già le betoniere, ma il lavoro nostro costava di meno e perciò impastavamo con la pala: calce, pozzolana, sabbia, cemento. Si lavorava anche il sabato, mezza giornata.
La domenica gli operai andavano gratis a aiutare un loro compagno che si stava costruendo la sua casa. Ognuno dava il suo contributo spontaneo, certo di riceverlo in cambio quando sarebbe toccata a lui finalmente l’impresa di farsi la propria. Oggi che molti sono proprietari anche di seconde case, si ricorda male l’entusiasmo di posare l’ultima pietra della prima.
La mia l’abbiamo fatta in tre: due muratori e io. Era una vecchia stalla, trasformata in abitazione durante un inverno e una primavera. Non c’era acqua, né pozzo, raccoglievamo la piovana dal tetto con una grondaia dentro barili di ferro, impastavamo con quella. Per scherzo dico ancora che abito una casa fatta con le nuvole.
Suo materiale di costruzione è una pietra vulcanica del posto, grezza, nera, pesante, una sola faccia squadrata. Perciò i muri hanno lo spessore di settanta centimetri. Ogni pietra mi è passata più volte sulle braccia, imparando a vista la geometria degli incastri, la scelta di quella giusta accanto all’altra. Somiglia alla formula di una frase, dove la parola seguente va trovata nella catasta del vocabolario.
Ora la casa sta in mezzo agli alberi, ma non c’erano prima. Li ho piantati scavando nel terreno la buca per ognuno di loro. Non mi riconosco radici, non appartengo alla specie degli alberi, mi riconosco nella loro ombra, che crescendo si allarga a ombrello in terra. Mi rallegro dei loro rami alzati al cielo, dei nidi che non hanno bisogno di tetto. Mi riconosco in qualche chiodo piantato nel muro.
Con un solo gradino si passa dal campo alla cucina, che mi fa da ingresso. Nell’angolo opposto un camino costruito a giusta altezza di quaranta centimetri, mi scalda gli inverni con la legna del campo. Dopo avere gettato la sua base in cemento armato con tondini di ferro, costruimmo la cappa con i mezzi mattoni refrattari, cotti in una fornace di paese.
Nel cambio delle temperature esterne in autunno e in fine di inverno, i muri hanno scricchiolii di assestamento insieme alla travature di legno del tetto. La casa non è un blocco di materia inerte, ma va con le stagioni, risente delle lune. Risente anche delle vite che ci sono passate dentro.
Ho smesso da svariati anni di lavorare nella muratura. Il palmo della mano ha smesso il suo spessore. Mi resta l’esperienza di un mestiere manuale che ha fatto di me l’uomo che sono. Ho avuto per lavoro l’occasione di usare il verbo costruire all’attivo: ho costruito.
Dentro di me riconosco piuttosto che io sono stato costruito da un mestiere antico.
Erri
Caro Erri,
ogni tanto, come un fiore di campo, sbucano i tuoi ricordi di operaio e manovale, e allora riesco a vederti con una tuta da metalmeccanico una volta, o con un berretto di carta a mo’ di barchetta , bello impolverato di calce e scagliola . Tra le molte narrazioni sono rimasta attaccata a due in particolari . La prima è un tratto a incisione di una riflessione su ‘Altre prove di risposta’ che dice : “Una persona che non debba alle mani, alle braccia, il proprio salario…. finisce per sapere poco delle mani.” La seconda sta ne ‘ll più e il meno’: “ Nella piola di Torino mi prendevano in giro per le mani imbottite di schegge di ferro, perché in fabbrica usavo poco i guanti, venivano dalla muratura e preferivo mani libere anziché chiuse incappucciate in quelle pastoie inzuppate d’olio”. E poi, tante altre considerazioni sull’onorabilità delle mani, sul fatto che siano svelte e capaci di cicatrizzare la fatica durante la notte per ritornare nuove l’indomani… le amiche utili del giorno di poi, tanto che non ho capito perché, visto l’apprezzamento per i nostri appigli più funzionali, hai poi preferito innalzare in ‘Elogio’ i piedi all’onore di un canto tenerissimo… e vabbuò.
Racconti di un tempo che dovrebbe esser ‘vicino’, perché fino a qualche anno fa, sì che succedeva come racconti tu. Questi occhi han visto parenti e vicini di casa dannarsi le domeniche, le ferie e le festività per tirare su i muri nuovi per accogliere la famiglia, pietra su pietra, mattonella dopo mattonella, e tra una e l’altra pure qualche bestemmia trattenuta per stanchezza e per la paura di non riuscire a far fronte alle spese; oggi non è più così ‘facile’, i tempi correnti impongono una povertà strutturale tale nella classe lavoratrice che rende impossibile il sogno di una casa costruita con le proprie mani, dove i redditi vengono interamente assorbiti dalle necessità correnti e poco resta per costruire un sogno…(per ora è così, poi chissà…finirà mai questa crisi?). Però, alla fine c’era la festa della riuscita. E c’era la stretta di mano con chi aveva collaborato, uguali alle tue Erri, anche se scrivi che poco e niente è rimasto di quel passato di lavoro manuale. Mi sento di smentir un po’ quanto hai affermato, perché il palmo della tua mano ha solo assorbito la forza di quelle esperienze, smussandone la stanchezza, ma conservano tutta la forza e l’impegno che hai messo nell’usarle. Sono mani sapienti le tue, e non perché ora le usi come strumento di scrittura, ma perché i lavori pesanti sanno tracciare, nelle mani di chi li ha svolti, un segno temporale anche quando non si praticano più, consistenti nel ritardo dell’abbraccio e nel rifiuto a dimenticare carezze su visi amati. Una sorta di risarcimento alla durezza imposta dalla vita, ce l’hanno tutte le persone che hanno faticato tanto, questa andatura.
Ciao poeta, magari hai finito di costruire case, ma con i tuoi libri hai vestito angoli di muri maestri di tante abitazioni, ed è un po’ come aver costruito anche quelle. Il tuo tappino, Kisses
di pensiero in pensiero: stasera non innaffierò i miei limoni ,l’ho già fatto ieri
A Londra sta bruciando un palazzo di cinque piani.Sembra una torcia umana.
Ho voglia di vivere in una botte ma so che è solo un pensiero senza significato.
Può bruciare anche una botte,anche più velocemente,è successo.
Viene in mente ,ossessivamente,la fragilità della vita,delle nostre costruzioni,
la precarietà dei rapporti umani,il piano inclinato del nostro pianeta oggi.
Forse bisognerebbe riuscire a piangere ,qualche volta,lacrime di pena,
pioggia che cade,Poi riuscire a partire ancora e ancora senza chiudere gli occhi
Construire sa maison
puis y vivre
c’est un privilège
c’est intense
chaque coin et recoin
chaque morceau de mur
chaque pierre tuile brique
parlent à son constructeur
puis la vie y met des sentiments
l’amour des siens
la beauté de voir grandir les arbres
sentir le changement des saisons
avec l’odeur du café en plus
je salue
vos si belles mains laborieuses
et votre humanité
Leggendo questo testo e paragonandolo alla mia vita odierna mi rendo conto di quanto siano cambiati i ritmi della società. Nel tuo racconto c’è una lentezza che purtroppo sa di antico. E’ una ricchezza che dobbiamo a tutti i costi recuperare rallentando il nostro modo di vivere. E’ questo il vero modo di essere rivoluzionari in questi anni, rallentare. Ci proveremo.
Ognuno di noi è un intorno di affetti, le loro mura. E il loro centro. Ho adottato la mia casa, ogni cosa ha il suo posto, come il fegato non potrebbe sostituire il cuore…
Erri, senti questa, l’ho appesa all’ingresso…
“Non il grillo ma il gatto
del focolare
or ti consiglia, splendido
lare della dispersa tua famiglia.
La casa che tu rechi
con te ravvolta, gabbia o cappelliera?
sovrasta i ciechi tempi come il flutto
arca leggera – e basta al tuo riscatto.”
(A Liuba che parte, di Montale)
bel testo suggestivo.
oggi capisco,mi sembra,meglio la tua risposta a una domanda che ti avevo fatto.
poi se infinite sono le risposte,forse,la mia domanda rimane la stessa.
ma al di là delle interpretazioni,hai avuto una vita intensa bella e difficile,mi pare.
sei un costruttore di pace che sa attraversare campi pieni di trappole,non è poco.Erri ti voglio bene.
sono stata un piccolo muratore,davvero tanto tempo fa,per poche ore e nella mansione più infima:quella di buttar via
i vari mattoni che, a pezzi e a bocconi ,ostruivano passaggi in un appartamento da ristrutturare insomma quasi tutto da rifare.
Anche se per poche ore,forse tre o quattro,conosco la fatica e il sudore, pure l’attenzione che occorre per fare un lavoro ben fatto.
La polvere si infila dappertutto,come se non se ne volesse andare,quasi a monito,quasi per farci ricordare che altra polvere sarebbe poi venuta,
che una casa ,alla fine ,non è mai veramente finita.Dopo l’inverno bisogna imbiancare,poi c’è una maniglia da aggiustare,un pezzo di legno
del parquet da levigare.è la vita che ci passa dentro,hai ragione,e lascia impronte non sempre da cancellare.Una vecchia canzone anarchica recitava_la casa è di chi l’abita_è vile chi l’ignora_il tempo è dei filosofi_la terra di chi la lavora_Direi che nel tuo caso è proprio così,hai anche piantato alberi,hai costruito e sì,bisogna riconoscerlo ,sei stato costruito da un mestiere antico che ha lasciato una nobile impronta sul tuo viso,
nel tuo modo di fare,nella maniera di parlare.Puoi dire conosco un po’ la vita e forse ,guardando le nuvole che vanno e vengono,anche un po’
le vie del vento che si sa soffia dove vuole.I solitari hanno più tempo per vedere e in alto e in basso.
caro Erri
mi piacerebbe restituirti, almeno in parte, la carezza al cuore che la lettura delle tue parole mi procura e da cui traggo spunti di riflessione.
Sono un appuntamento profondo e silenzioso in un mondo, per lo più, superficiale e rumoroso….sono come un riflettore che si accende su un argomento dei più disparati, donandogli dignità e poesia.
Grazie
mi hai fatto venire in mente Amarcord e la poesia del Calzinazz: Mio nonno fava i mattoni, mio babbo fava i mattoni, fazzo i mattoni anca me. Ma la casa mia n’dov’è?
Alla fine tu sei riuscito a costruire la tua casa. Però sono ancora tanti, troppi (mi vien da dire che son sempre di più) quelli che lavorano lavorano lavorano ma la loro casa non la vedono mai