Le scrissi nel ’69, furono pubblicate nel ’70. Erano poesie, in una mi chiamavo per nome anagrafico, Enrico. In quel tempo non conoscevo ancora il mio definitivo, oscillavo tra Harry, nome dello zio, e Enrico, come da documento. A Erri ci sarei arrivato dopo. Pubblicavo per la prima volta qualcosa di mio e per giunta su una rivista di prima scelta, “Nuovi Argomenti”. Era un’apertura e una prima cittadinanza. Fu una chiusura. Non proseguii. Intorno si svegliava la lotta politica, l’urto con i poteri costituiti e loschi dopo le bombe terroristiche del ’69 e i braccianti ammazzati dalla polizia a Battipaglia e Avola. Appartenevo al moto ondoso in aumento nelle piazze. Dimenticai quella prima pubblicazione promettente. Venti anni dopo uscì il mio primo libro e fu quello il mio inizio letterario. L’altra era stata una falsa partenza. Erano passati due decenni tra le due pubblicazioni, erano stati per me di fuochi in strada e fumi in officina. Ero un altro.
Di quei versi stampati nel ’70 ricordo una cifra: 18.000 lire. Mi avevano pagato quelle poesie stampate 18.000 lire. Erano dieci cene all’osteria, vino compreso. I versi non danno pane, dicevano i latini: a me dettero pure il companatico per la bella durata di dieci serate. Queste righe vogliono essere un omaggio a loro, alle osterie. Aprivano al mattino e chiudevano quando usciva l’ultimo avventore. A Roma ne frequentavo una a San Lorenzo, insieme a marmisti, pensionati e falegnami. Incrociavano a mezzodì noialtri, una gioventù che trasformava in politico tutto quello che toccava. Anche l’osteria diventava assemblea. Si discuteva il fatto del giorno alla temperatura giusta di fervore, insieme ai tavoli dove si interrompeva la partita di briscola e tressette, che per posta aveva il quartino o il mezzolitro. Accucciati c’erano i rispettivi cani, membri quieti della comunità, non disturbati dal gatto di casa.
All’osteria si mischiavano le generazioni, era stanza di popolo. Ogni avventore aveva un soprannome, il mio era “la faina”, perchè mangiavo sempre pollo lesso o due uova al tegame.18.000 lire, mi dettero un assegno, dovetti entrare in una banca per la prima volta. Si spaventarono, all’epoca senza intenzione bastava poco a scombussolare. Incassai la somma. A quei tempi facevo il fattorino, dopo il liceo avevo lasciato perdere gli studi. Guadagnavo 70.000 lire al mese, un quarto se ne andava in affitto di una stanza. Mangiavo a mezzogiorno alla mensa universitaria, dove i lavoratori addetti al servizio avevano deciso di sfamare politicamente anche giovani senza iscrizione alle facoltà.
La nostra sede pubblica di gruppo era nel portone accanto all’osteria. Quando avevamo le stanze piene, ci spostavamo di pomeriggio tra i tavoli vuoti. Pagavamo un litro, per giustifica dell’ospitalità. Il bagno comunicava tramite una finestrella con un cortile minimo, una intercapedine in comunicazione con le nostre stanze. La questura mandava a quei tempi squadre volanti a perquisire, cioè buttare all’aria. Facevano senza mandato di magistratura. Appena si affacciavano in quartiere una carambola di fischi avvertiva della visita, più veloci di una telefonata. L’unico bene da preservare era il ciclostile elettrico con cui stampavamo i nostri volantini. Passava svelto da una finestra all’altra. I pensionati strizzavano l’occhio, continuando a giocare a carte.
Spesso capitavano scontri all’università, allora i manifestanti ripiegavano dentro il quartiere di San Lorenzo. Di solito le truppe evitavano di entrare, ma qualche volta si spingevano all’interno. Dalle finestre, dai balconi piovevano allora materiali inerti a contrasto dei candelotti lacrimogeni sparati nelle stanze. L’oste abbassava la saracinesca a mezza corsa pronto a far entrare i nostri e poi richiuderle. Era uno di noi? Non proprio, però aveva fatto guerra e prigionia lunga, in Africa. Di fascismo ne sapeva più di noi e più di noi ne aveva avuto abbastanza. Gli andavamo a genio per istinto di parte. Allora esistevano parti contrapposte. La politica orientava gusti, cibi, abbigliamento, orari, timbri di voce e di vocabolario. Riguardava visioni del futuro e non sondaggi del giorno prima. Oggi senza fervore delle differenze e senza osterie, i contrasti tra le parti politiche sono di sfumatura. Non sono avversari ma concorrenti, vendono circa la stessa cosa, si rivolgono a una clientela anzichè a cittadini, credono che l’Italia sia un’azienda. Si affidano perciò a apparizioni televisive, affidano a un intervallo tra le pubblicità i loro messaggini. Sono parti politiche intercambiabili, ma senza ricambio generazionale. Le gerarchie da noi sono casi clinici di geriatria.
Ontologia, nel vocabolario Treccani, significa studio dell’ente, studio di ciò che è in quanto c’è. C’è significa che un ente, per esempio il sole,la terra, una mano, una casa esistono nel momento in cui li percepiamo, ci accorgiamo della loro presenza. Prima di Heidegger ciò che esiste, che c’è per noi, esiste indipendentemente dal suo avvenire, cioè dal suo comparire, cioè dal suo mostrarsi “arrivando” in un luogo, in un posto da abitare. Ecco a me pare questo, a me pare che tu sei una delle poche persone che ho letto, in grado di abitare il pensiero, dici “senza fervore delle differenze e senza osteria, i contrasti tra le parti politiche sono di sfumatura. Non sono avversari ma concorrenti, vendono circa la stessa cosa, si rivolgono ad una clientela anzichè a cittadini, credono che l’Italia sia una azienda. Si affidano perciò a apparizioni televisive, affidano a un intervallo tra le pubblicità i loro messaggini. Sono parti politiche intercambiabili, ma senza ricambio generazionale. Le gerarchie da noi sono casi clinici di geriatria . ” Tremendo l’ente politico, e perfettamente smascherato, abitato. Mi viene in mente la novità, che l’essere per antonomasia (Dio) non si limita ad essere, ma, attraverso l’incarnazione del verbo avviene, cosicchè ci si trova di fronte ad un evento, non si tratta solo di intendere le idee ma di intendere e riferirsi al mondo, l’orizzonte su cui si possono definire e riconoscere le cose, che altro non sono se non gli enti
Allora. frequentavo le. Medie ma in provincia l’aria era cambiata, poi in pochi
anni siamo cresciute in realtà più
dure e. dolorose. Non è stata una vita
fa, quando abbiamo capito che
che niente sarebbe cambiato non
più sorrisi ma la consapevolezza
Che came poetava De André…anche se
vi credete assolti siete lo stesso coinvolti…. ecco la cicatrice che
nessun chirurgo può rimuovere
o semplicemente non si. vuole
cancellare, sono gli sguardi che
comunque siano parlano di noi,
e non una vita fa ma in questo
momento, non
Nel secolo scorso…. vita lontana anni luce