Raffaele La Capria scrisse il suo primo libro “Un giorno d’impazienza” nei primi anni ‘50. Era amico dei miei genitori, passava a trovarli e leggeva loro i capitoli che andava scrivendo. Abitavano vicino, in stanze che si sporgevano sulla scogliera, a Napoli. Da qualche parte c’ero anche io.
È il suo libro che preferisco. C’entra l’amicizia coi miei, c’entra il titolo. Perché ho cercato e cerco di governare in me lo spunto dell’impazienza.
Agge pacienza, abbi pazienza: è un antico invito alla sopportazione. Provo ad anticiparla, a farmi andare bene il contrattempo, la causa minore o maggiore che mi sta intralciando.
Mi sono incuriosito delle forme assunte dalla pazienza. Evito sospiri, occhi al cielo, segni di scoraggiamento. Al loro posto subentra un’attenzione a rallentare i gesti, un regolamento della respirazione, un abbassamento del tono di voce. In questo modo la causa esterna dell’impazienza sbiadisce, non più percepita.
Traguardo è un comportamento sorvegliato.
In ultimo la pazienza può diventare uno stile. L’ho tentata in gioventù, a contrasto delle agitazioni intorno. L’ho ritrovata in altri appuntamenti difficili.
Mi ha tenuto compagnia durante le restrizioni dell’epidemia. Non la considero una virtù, ma un adattamento occasionale, a discrezione della circostanza.
Il libro di La Capria, il cognome De Luca del protagonista, eliminato poi in edizioni successive, mise nel mio ordine del giorno la parola impazienza e i suoi derivati da correggere.