Questo premio si chiama Europeo, dunque c’ entra la geografia. Europa è un nome greco e io vengo da una città fondata dai Greci, Napoli, da Nea Polis, città nuova. Questo premio letterario è assegnato tramite me a questa città. Quando la fondarono ne avevano già inaugurate molte altre in giro per il Mediterraneo. Avevano esaurito la loro fantasia e chiamarono “Città nuova” quel primo insediamento nel golfo del Vesuvio.
Il mondo è pieno di città nuove, di Newtown, di Villanueva, Novi gorod, Neue Stadt. Allora il cittadino napoletano nel corso dei secoli si è impegnato a rendere inconfondibile il suo luogo, riuscendoci. Oggi Napoli è una città leggendaria, risultato della combinazione di magnifico e di atroce.
La sua posizione geografica ha deciso di lei. Sopra un suolo sismico e sotto un vulcano catastrofico, i suoi abitanti hanno il sentimento di essere ospiti con la valigia pronta accanto all’uscio, preparati a essere scaraventati in strada in ogni momento.
Abitano uno dei golfi più belli della terra ma sanno che quella bellezza non è decorazione. Quella bellezza è stata lavorata da eruzioni, terremoti, catastrofi. Quella bellezza è forza di natura scatenata dal basso contro l’alto, opera di insurrezione che sconvolge e riscrive la faccia della terra.
I napoletani hanno imparato a saltare a comando, come pulci ammaestrate, sotto le spinte e i fuochi del sottosuolo. La loro danza popolare, la tarantella, imita le scosse sotto i piedi e spera di ammansirle. Il sistema nervoso dei napoletani dipende dalla geologia. Ognuno di loro sa, pure nel sonno profondo, da che parte si trova il Vesuvio.
Il santo patrono, San Gennaro , è specializzato in eruzioni. La sua reliquia sanguigna che si squaglia e riaggruma a scadenze fisse, imita la fusione della lava.
La statua del santo veniva portata dal popolo di fronte all’avanzata del fiume di fuoco e l’ arrestava.
Nel 1799 le truppe francesi entrano in Napoli dopo avere incontrato la più forte resistenza popolare. I re del luogo, i Borbone, sono fuggiti prima, insieme all’ esercito, ma le truppe francesi vengono bloccate per giorni fuori della città da uno sbarramento di popolo. Riescono a entrare con l’ aiuto dei giacobini locali che consegnano loro con un trucco il Forte di Sant’Elmo.
Nel breve periodo di occupazione francese ricorreva il periodico miracolo del sangue di San Gennaro. La fede popolare attribuiva all’ avvenimento un segnale. Se non avveniva il miracolo, voleva dire che il Santo era contrario all’ occupazione. Nel tempo stabilito il prodigio tardava e il popolo si stava agitando pericolosamente. Allora il generale francese minacciò il vescovo di tagliargli la testa se non si squagliava il sangue nella teca. Subito si produsse il miracolo e il popolo si calmò.
Al ritorno dei Borbone, San Gennaro, accusato di aver collaborato con i Francesi, fu destituito dalla carica di santo patrono e sostituito da altro tutore. Ma alla prima eruzione fu chiaro che il nuovo santo era inesperto di eruzioni. Il fronte della lava si avvicinava, allora il popolo andò a recuperare la statua di san Gennaro e la portò in processione davanti alla marea di fuoco. Puntualmente quella si arrestò e san Gennaro fu reintegrato definitivamente nella funzione di santo patrono.
Questo episodio spiega la natura terrestre del sentimento religioso a Napoli. Il sacro non scende dal cielo ma affiora dal sottosuolo ardente.
La sua pietra da costruzione è il tufo, resto di eruzione spenta. Fu scavato fin dal tempo dei Greci producendo immense cavità che si estendono sotto la superficie della città. Perciò Napoli è doppia, gremita sopra e vuota sotto. E’ una città sospesa su enormi celle di un alveare, campata sull’ aria come Venezia è campata sulla’ acqua.
I Tedeschi hanno una parola poetica, e perciò esatta, per definire una persona che non ha i piedi per terra: “Luftmensch”, una persona d’aria. Napoli è per sua geologia una “Luftstadt”, una città d’ aria.
Per molti anni ho fatto il mestiere di muratore, lavoro di chi alza muri. I muri servono sempre a dividere. Il tufo invece, pietra porosa, piena d’ aria, non vuole separare. Attraverso la sua groviera mette in comunicazione e stanze, i piani, le case tra loro. Perciò a Napoli tutti sanno tutto degli altri, non per pettegolezzo ma per naturale diffusione acustica.
Dietro i muri di tufo , da bambino ascoltavo le storie in dialetto, dette e ripetute dalle voci delle donne. Quelle storie mi tenevano sveglio, mi drizzavano le orecchie, come fa il vento con le vele. Mi facevano andare per il mondo e per il tempo sotto la loro spinta. Attraverso le voci venivano informati anche gli altri miei sensi: potevo, vedere, sfiorare, assaggiare, annusare.
Erano racconti di bombardamenti aerei e corse nei ricoveri, di fantasmi, di terremoti, dell’eruzione del ’44 che ricoprì Napoli di cenere come una benda sopra una ferita.
So dalle voci delle donne il suono della sirena dell’allarme aereo, per me è la colonna sonora del 1900, il secolo che ha inventato la possibilità di far esplodere i centri abitati colpendoli dall’alto. Da Guernica in poi il bombardamento aereo di una città è l’ atto di terrorismo per eccellenza, quello che vuole distruggere e terrorizzare le persone indifese, prese a casaccio, nel mucchio, nelle loro abitazioni.
Questo spiega a me perché nella primavera del ’99 , contro i bombardamenti andai a stare dalla parte del bersaglio, a Belgrado, da solo, a pareggiare i conti con mia madre, ragazza di Napoli al tempo del terrore. Abitavo all’ultimo piano dell’Hotel Moskva e al suono della sirena di allarme non scendevo nei ricoveri. Perché non ero un cittadino di Belgrado, ma uno di un paese che li stava bombardando senza neanche disturbarsi a dichiarare guerra.
MI sono infilato in vari posti scomodi nella mia vita. ma quello è stato il più rumoroso, sotto il torrente di missili, bombe e razzi vari della Nato.
Quelle voci di donne di Napoli mi trasmettevano immedesimazione fisica. Reagivo a quei racconti arrossendo d’impotenza, di vergogna, di collera, di commozione. Quelle voci arpeggiavano sui miei nervi, me li accordavano sulla tensione giusta.
Al termine della mia crescita in centimetri ero pronto a procurami l’ esilio volontario. Quella città perciò , invece che madre, mi ha fatto da causa e io sono uno dei suoi effetti, rotolato lontano.
Le voci delle donne di Napoli, filtrate dal tufo, hanno fatto di me un recipiente di storie.
Un’altra parte del mio udito è stato educato dalle canzoni napoletane. Quelle melodie scritte da poeti e composte da valenti musicisti erano il frutto di una città piena di teatri e di orchestre. Cantavano il luogo e le sue forze di natura. La più potente è il sole, perciò la più famosa canzone napoletana doveva essere ” ‘O sole mio”. Per vostro sollievo non mi metterò a cantarla. Al suo posto vi leggo una poesia sul sole scritta dal massimo poeta in napoletano, Salvatore Di Giacomo:
Le soleil n’est pas d’or, ma fille,
ni dans l’ hiver ni dans le printemps,
n’écoute pas à qui dit cette mensonge,
ne croie pas à qui chante cette chanson.
Réponds à qui te dit ces mots:
le soleil n’est pas d’or,
le soleil est le soleil
qui échauffe les maisons
qui fait murir les fruits et dore les épis,
le soleil qui me fait essuyer le linge
qui sèche les tomates et crève les figues,
et il n’ est pas d’or
parce que l’or est rien
et sans soleil il ne serait pas luisant.
La musica di ” ‘O sole mio” fu composta in un’ alba sul mare, ma non su quello di Napoli: a Odessa sul Mar Nero. Lì si trovava in tournée il musicista Di Capua, a bordo di una nave. Anche per questo motivo personale per me il Mar Nero appartiene al Mediterraneo e nella Odessa scritta da Isaac Babel ho riconosciuto i quartieri di Napoli e la sua malavita.
Al termine di questo mio racconto sulla destinazione del vostro premio letterario alla città di Napoli, dichiaro qui la mia identità: sono uno che viene da Napoli e appartiene al Mediterraneo. L’ Italia è il suo ponte gettato a collegare Europa, Africa e Asia. Peccato che non si spinga di più e lasci così tanto spazio al Canale di Sicilia e ai naufragi.
A scuola mi hanno insegnato che è a forma di stivale. Oggi la vedo come un braccio che si stacca dalla spalla robusta delle Alpi e si allunga nel Mediterraneo finendo con la Puglia e la Calabria che sono le estremità di una mano aperta. E la Sicilia è un fazzoletto al vento che saluta.
Al Mediterraneo dedico queste righe e la chiusura del mio intervento.
Essere di Medit.
Essere di Medit per nascita e destino, che non è
il futuro assegnato, ma il passato sfuso
e sta alle spalle, guida la sorte alla deriva e a spasso
nel largo del vento che cambia di umore
secondo le ore.
Avere canarini sul balcone,
muri imbiancati a calce,
vedove di ammazzati sotto il sole a picco,
avere più dialetti che santi,
più altari che sorgenti.
L’ acqua è poca, piovana, prigioniera
nelle cisterne buie, nei pozzi scavati da Avràm
che fece il vagabondo per la divinità
che si divise in tre, attaccabrighe e dispari.
Poi quando arriva la fine del mondo
siamo tutti a teatro
e uno di noi corre a piantare un albero
perché non si sa mai,
per guapperia,
per ultima scaramanzia.
Essere di Medit perché civiltà e storie
sono venute a vela sul carro delle onde.
L’ Italia è terra che si è messa in mezzo
con isole e vulcani,
chiari di luna e di coltelli,
capperi, menta e agnelli
e una luce di lacrima negli occhi
che brilla pure al buio senza cadere.
(Foto di Herbert Ejzenberg)
Erri o’ ma
st massimo o’ cape ri mast chapeaux
Mi conforta signor De Luca leggere i suoi articoli, le sue storie che narrano di Napoli perchè c’è chi esprime i mei pensieri e riesce in qualche modo a farmi rientrare in me, anc he nei momenti bui mi dona
un sorriso affettuoso senza nostalgia ma con la cosapevolezza che ……..complimenti il suo
discorso semplice ma sofisticato ci ha ben rappresentato ……..
Com’è bella Napoli e come sono belle le parole che ce la raccontano.