Marek è pronto per incontrare la faccia di suo padre. Il suo corpo è davanti a lui, mancano i tratti del volto che resistono alla messa a fuoco.
Marek continua a vedere una foschia su quella faccia rimasta a mille miglia a oriente di Parigi.
In Ebraico oriente e prima sono lo stesso nome: “Kèdem”. Allora Marek, sposta la tela verso oriente, anche se da lì non viene luce. Aspetta che sia sera e illumina a candele il cavalletto.
Pensa alla faccia di suo padre, com’era quando lui, suo figlio, era bambino, il primo dei molti fratelli. Ancora non riesce. Una rissa si svolge tra la faccia del padre e il pennello del figlio.
Quella faccia non vuole stare ferma, fa smorfie, si volta, serra gli occhi.
Si ribella, come si è ribellato lui, lasciando casa e lingua, perché Marek ha smesso di parlare yiddish.
Ci sono emigranti che mettono un guanto forestiero sulla lingua e cambiano accordatura alle corde vocali. Marek sta per buttare la tela nella stufa. Gli sembra pure una liberazione, sciogliersi con il fuoco da quella nostalgia. Ma tra padre e figlio non si da scioglimento. La loro akedà è definitiva.
Isacco offre al padre i polsi, Abramo lega prima le caviglie. Non può sapere fino a che punto arriverà l’obbedienza del figlio. Sa dove arriverà la sua, fino alla cima.
Lega dietro la schiena i polsi al figlio, a corda stretta per la posizione a gola tesa. E’ abituato a farlo coi montoni. Si costringe alla stessa legatura.
E’ pronto al sacrificio, intorno è tutto fermo. La cima è sotto il sole a picco, non c’è riparo sotto nessun’ombra e nessun riparo al dubbio. In alto galleggiano ali ferme sopra le correnti ascensionali.
Abramo estrae dal fodero di pelle la lama del coltello, affilata da tagliare il pelo. Serve che sia così per non causare sofferenza di lacerazione alla gola tesa. Il montone sviene per dissanguamento senza neanche accorgersi del taglio.
Non ha bisogno di sollevare l’arma però fa lo stesso. Alza il coltello al cielo che glielo ha chiesto. Alza il coltello e l’ombra della mano sta sulla gola del figlio.
Il lettore oggi sa che non la taglierà, Abramo no.
Non sa se un’allucinazione dell’udito, la voce che lo sta chiamando per il nome. Esita, dubita di essersela inventata, poi risente più nitida la voce per la seconda volta, la voce che gli ha messo la vita sottosopra.
Sembra esserci una doppia legatura tra il senso di colpa, che deriva dalla avvenuta separazione tra l’immagine di sé da una dimensione collettiva, e la possibilità di rievocare nell’altro quella parte di sé rinnegata.
Abramo la affronta “spostando” l’immagine dell’animale sacrificale sul figlio per poter portare a termine il compito.
La stessa necessità di “ricompensare” in Marek
Sembra esserci una doppia legatura tra il senso di colpa, che deriva dalla avvenuta separazione tra l’immagine di sé da una dimensione collettiva, e la possibilità di rievocare nell’altro quella parte di sé rinnegata.
Abramo la affronta “spostando” l’immagine dell’animale sacrificale sul figlio per poter portare a termine il compito.
La stessa necessità di “ricompensare” in Marek.
Perdonate il doppio commento dovuto a goffaggine virtuale.