Moishe/Marek Chagall sta per buttare via il pennello che stringe, sollevato in alto, senza poterlo avvicinare alla tela. Afferra con le due mani il quadro ancora fresco d’olio, che luccica al chiarore di candele. Lo stringe e invece di spezzarlo con un colpo sul ginocchio, sente una voce che da un’altra stanza lo sta chiamando. Marek non risponde. Si ferma, accosta il quadro al viso e dove ci dovrebbe stare la faccia di suo padre, in quello spazio bianco posa un bacio.
Ora lo vede. Attraverso le lacrime lo vede.
Non lo rimette sopra il cavalletto, lo poggia in terra e comincia dagli occhi. Sono nere le pupille spalancate, quelle delle aringhe pescate tra il Baltico e l’Islanda. Intorno al nero ci sta il bianco del ghiaccio. Cambia pennello, ne prende uno largo e con quello cerchia di rosso gli occhi di suo padre. Non le guance magre, non è maschera di Purìm, di un Carnevale yiddish. Non è giorno di festa, è di mercato. Il padre si solleva diritto tra una cassa di aringhe e l’altra, guarda in faccia il figlio. Le cerchiature rosse sono la marchiatura del mestiere, impasto di sudore, salamoia, insonnia di giornate iniziate assai prima dell’alba. Chi si sveglia col sole già levato non s’intende di giorni avviati in piena notte. Quel rosso intorno agli occhi lo prende per licenza di pittore. Non è licenza, è riconoscimento di un’umiltà compresa finalmente, avvicinata dai pennelli come una carezza.
Senza singhiozzi Marek piange e dipinge.
Non gli cade di mano il coltello quando percepisce le sillabe: “Attà iada’ti”, adesso ho conosciuto. Adesso: solo adesso? Non lo sapeva prima? Non era tutto già determinato?
Abramo ammutolisce, neanche abbassa il braccio con la lama: la sua divinità non lo ha saputo prima. Non ha voluto saperlo e così gli ha lasciato aperto il campo delle varianti, dal rifiuto all’obbedienza letterale. Si è ritirata, si è messa da parte per dare alla creatura umana lo sbaraglio di una risposta.
Libertà? Solo quella tra due, obbedire o negare. Chi risponde “Eccomi”, ha già risposto prima.
Abramo apre le dita del coltello. Isacco a gola tesa aspetta. Non ha sentito voci, la cima del Morià per lui è rimasta muta.
In nessun punto si legge che Abramo scioglie Isacco. Qui i nodi si disfano da soli.
L’alpinista Paul Preuss da primo di cordata si legava in vita con un nodo che si sarebbe sciolto da solo in caso di caduta, per non coinvolgere nella caduta mortale il suo secondo. Così è stata la legatura eseguita su Isacco, quando il coltello cade il nodo è sciolto.
Molti secoli dopo un altro Ebreo, l’Ungherese Ehrich Weisz, in arte Harry Houdini, sbalordì le platee con le sue impossibili slegature. Forse volle imitare Isacco, che si sciolse o fu sciolto, lasciando il dubbio ai posteri.
Houdini scrisse in un libro alcuni dei suoi trucchi. Isacco e suo padre invece mantennero il segreto. Da loro in poi, il rapporto padre figlio è una disputa tra un nodo e il suo disfacimento.
Nelle nostre conversazioni si usa dire: sacrificio di Isacco. Non ci fu. Scendono padre e figlio, alleggeriti dal carico portato fino in cima. Alle loro spalle brucia sopra l’altare una bestia scannata in sostituzione.
In Ebraico l’episodio si dice: legatura di Isacco. Il nodo stretto tra loro due lassù è irreparabile, c’è stato. Lo scioglimento non può cancellare il gesto precedente d’incaprettare il figlio.
Dipingere il padre per restituire un atto di creazione…
“Non è licenza, è riconoscimento di un’umiltà compresa finalmente, avvicinata dai pennelli come una carezza.” : … Dio è desiderio, è questo il legame tra l’uomo e il padre, altrimenti è Legge cieca, che non ha volto umano e che allontana all’infinito l’uomo da se stesso.
Che il rapporto padre figlio sia una disputa tra un nodo e il suo disfacimento è simbolicamente tensione e riconciliazione con la vita.
… E che lo scioglimento di quel nodo non possa cancellare il gesto precedente d’incaprettare il figlio, non vuol dire che il risarcimento non abbia raggiunto lo scopo di un recupero.
Ammettere il fallimento di Abramo è ammettere il successo di tutta la sua umanità nella quale potersi sentire libero.
Mi scappa da ridere a leggere “Attà iada’ti”. Papà, padre, l’ebraico antico si lega al dialetto di mia nonna, il coratino. Ora so per certo che la Puglia ha avuto una presenza ebraica significativa, lo so anche dalla presenza delle orecchiette, pasta che indurita dalla sua morbidezza doveva viaggiare secca talvolta per esser cotta. “Va’ ad Attanne”, va da tuo padre. Il dialetto solletica il naso, se poi si trovano aderenze nelle lingue regolamentari dal naso il solletico scende in bocca :-D. La legatura del padre al figlio è simile alla lingua con la parola madre, uno talvolta finge di non ricordarsi da dove viene per uniformarsi, ma sbuca fuori il legame appena il sangue è eccitato da un’emozione, e là il nodo stringe. Che c’è di male? La lingua madre e il padre tornano sempre, o meglio: attendono che dall’altro capo un figlio stringa il filo. Ciao Poeta, ben trovato <3 <3 <3
Continua a crescere la storia e il complesso racconto del “rapporto padre figlio è una disputa tra un nodo e il suo disfacimento”.