Ora è simbolo sacro, all’inizio era un patibolo, il palo di una condanna a morte. Fosse morto più tardi di pena capitale, la cristianità avrebbe avuto sugli altari una forca, una ghigliottina. Così va immaginata la croce ai suoi tempi. Così è grandiosa la forza visionaria che la rovesciò “in hoc signo”. Lo strumento di morte dei Romani per esporre e umiliare il condannato, da arnese infame si è trasformato in piedistallo di gloria, riprodotto su bandiere e tombe. La croce si è piantata sul paesaggio. Su ogni cocuzzolo di montagna ce n’è una, messa a segnalibro tra la terra e il cielo, dove finisce la salita e deve cominciare la discesa. Di solito è spoglia, senza crocefisso e non la capisco, la vedo da lontano come un vaso senza fiore. E’ il corpo del condannato a far fiorire il legno del patibolo, è il suo sangue di papavero a scacciare l’inverno. Il corpo crocefisso redime il legno e il nome della scotennata altura del Golgota. Una croce senza corpo è una ics, un segno di pareggio da schedina. Pareggio è che nessuno vince dove una vita è persa.
Di che legno era? Il condannato, da falegname, lo riconosceva. Dal peso e dal diametro ne calcolava l’età. Forse erano coetanei, il legno e lui. Era stato tagliato nei rari boschi di Israele, trascinato a valle e destinato al peggiore degli usi. Quel legno, pure lui, era sprecato in terra. Quando glielo caricarono sulle spalle larghe, gettò resina e linfa, tornò di nuovo albero. Sapeva risanare ogni ferita e piaga, ma nessuna sua. Da falegname ne riconobbe la specie dall’odore, dal tatto, non poteva vederlo.
Pensò a Nòah, Noè, il primo mastro d’ascia della storia sacra. Quanto ci aveva messo a fabbricare lo scafo del barcone grande quanto uno stadio? Quanta foresta aveva tagliato, stagionato, quanto tempo? Forse trent’anni, poco più, quanto quelli che lui aveva in quel momento. Nessuno prima di Nòah, Noè, era stato così visionario da piantare un cantiere navale in mezzo ai boschi. Il condannato pensò che pure la sua vita era stata febbrile di mosse future, incomprensibili ai contemporanei.
I pensieri della salita regolati sul fiato riportavano alla sua sorte apparecchiata, ai suoi trenta e pochi anni non ne avrebbe aggiunto nessun altro. Dalla sommità della salita per lui smetteva il tempo calcolato a gocce, cominciava l’eternità che è a misura di oceano.
Nòah, Noè, vuol dire riposo: ne aveva bisogno. La pasqua in Gerusalemme era stata gonfia di gridi a gola tesa, la folla era arrivata a un passo dall’insurrezione contro l’occupazione militare dei Romani. Era arrivata a un passo e si era fermata. Glielo aveva lasciato a lui, da compiere. Ma il suo passo non era frontale, di assalto. Era di lato, mossa del cavallo. Non con le armi in pugno ma con il disarmo interiore dell’odio e dell’ostilità voleva pareggiare la partita. Non con le armi dentro Gerusalemme, ma con la sua notizia a scardinare Roma. Se vide lontano, sorrise alla vista, dal Pincio e dal Gianicolo, della città stracarica di croci parafulmini su campanili e chiese. Dal Golgota poté vedere il ritardo dell’avvenire da lui annunciato, una prolunga in cui le sue parole sarebbero state innumerevoli volte fraintese. La croce gli servì da sgabello salito per traguardare il tempo.
Conficcato al suo legno confermò l’impressione di quando l’aveva avuto sulle spalle: era “gòfer”, quello di Nòah, Noè, albero non identificato dai biblisti. Era il legno che aveva tenuto nel grembo la folla di coppie messe in salvo e all’asciutto dal diluvio. Ora teneva lui, le braccia aperte. In terra la croce disegnava la sagoma della ics, lettera latina sconosciuta all’alfabeto ebraico. Morì con il pensiero di pareggiare i torti e i conti. Dovrebb’essere così per ogni morte.
Sopra le alture salite da alpinista, scorgo negli ultimi metri dal basso la forma della croce piantata senza il condannato e la scambio per la firma di un analfabeta in fondo alla pagina vuota dell’aria.
“Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno”
Non sanno quello che fanno: non c’è consapevolezza, manca la capacità di sentire e di conoscere. E’ questo il fatto che può produrre tragici errori.
Il sentiero verso la consapevolezza è stretto, misterioso, pieno di inciampi, si snoda lungo una intera vita tra luce e oscurità; percorrerlo, è forse il solo modo che ci è dato per realizzare la nostra umanità.
Chi ha visto quella Crocifissione capisce al volo e il volo di Maddalena che la rende per l’eternità L’AMANTE ,colei che ha versato l’unguento prezioso sul capo di Gesù
ricevendone in cambio parole indimenticabili–Le sono perdonati i suoi molti peccati perchè ha molto amato.A chi si perdona poco,ama poco-Sul credere o non credere
c’è poco da aggiungere.Il gesto eloquente di Maddalena attraversa tutti i tempi anche quelli a venire e forse nessuno come Masaccio l’ha capito e ce l’ha fatto capire.
L’unguento prezioso unge i piedi del Cristo…
Tra tutte le Marie che coronano la vita di Gesù, mi piace ricordare la Maddalena come Amante con l’accezione di Discepola, donna, perbacco!, a cui è affidato il compito di divulgare la notizia della resurrezione. Fosse stata un uomo, il patriarcato non avrebbe impiegato secoli ad affrancarla dalla sua precedente vita e per mezzo dell’esilio affidarla alla memoria collettiva confusa in “mille aspetti”, tutti contraddittori, di cui nessuno potesse riscattare l’altro come parte di un’unità ben più interessante e concretamente redimente i cuori duri…
Il testo è di Mario Luzi
Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.
Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.
Caro mio poeta, quanto mi spiace aver così poco tempo per dedicare al tuo intervento quello che meriterebbe… ma forse è meglio così, un detto inglese dice che troppi spizzichi rovinano il brodo. Uno però, al mio solito, lo devo mettere, non per insaporire ma per togliere qualcosa stavolta, quel pizzico di amaro che metti nel parlare della fede che è fatto di distanza voluta, cercata. Dici di quella croce: “…dove finisce la salita e deve cominciare la discesa”. Errato. Per un cristiano la visione è esattamente contraria, ‘dove il vecchio testamento terreno finisce, e inizia una nuova notizia’. E ancora…”Morì con il pensiero di pareggiare i torti e i conti”, mi suona un’altro allarme. Cristo non ha pareggiato, ha vinto… Terza e ultimo spizzicata ( che poi il brodo da amaro diventa salato 😀 ) : “…La forma della croce piantata senza il condannato e la scambio per la firma di un analfabeta in fondo alla pagina vuota dell’aria.”. Sei talmente bravo a metter la tua di sigla sotto i tuoi pezzi che quasi mi scordo del contenuto… questa volta non è riuscito l’incanto però. Perché la croce… nessuna croce è davvero vuota. Hai scritto in “Nocciolo d’oliva” : ‘ Non avrebbero potuto mai immaginare – i romani- quei conquistatori, che razza di icona stavano montando sopra il Gòlgota.’
E, alla faccia del ‘io non sono credente, non posso dare del ‘tu’ alla divinità’, quel libro sfida per bellezza qualsiasi dichiarazione di fede e d’amore per Cristo che abbia mai udito (e sono 47 anni che vado in Chiesa!). Puoi dibatterti quanto vuoi, ma il fatto di fermarsi a guardare un pezzo di legno sbilenco e scrivere poi tutto quello che hai scritto oggi come ieri, su Chi ci è stato sopra e perché, ti rende formalmente Suo. E anche io sono Sua. Lo so, perché quando ne vedo una la vedo sempre piena, e sento il mio nome; lo so perché quando leggo qualcosa di lui scritto da te, poeta mio, ho ragione di non ritenermi davvero di nessun altra fede. <3 il tuo tappino ti abbraccia.
Oh, certo: ogni ombra ha una forma diversa.
Ogni volta che vado a Napoli sempre torno a vedere la Crocifissione di Masaccio.Cristo abbraccia il mondo,tutti noi.
Maddalena a me pare un uccello di fuoco pronto a spiccare il volo appena le sarà concesso di raggiungere l’amato.
L’intensità dell’insieme mi rapisce l’anima,mi fa pensare ,mi commuove fino alle lacrime,mi salva dalla disperazione.
Al Museo di Capodimonte a Napoli c’è un piccolo quadro, la Crocifissione di Masaccio. Sotto la Croce Maria è pallida e pietrificata (a sinistra), San Giovanni è dolce e raccolto in preghiera (a destra) e la Maddalena al centro allarga le braccia come un direttore d’orchestra, in azione. Sotto quella Croce c’è la sintesi di come l’uomo può reagire al dolore.
La mancanza di corrispondenza d’amorosi sensi rende muti tutti i segni
Croce sul cuore, croce nel cielo, crocevia tra la vita e un’altra vita; il modo in cui si passa dall’una all’altra è significazione del valore del materiale di cui è fatto un essere, sempre eccedente se messo in relazione alla sua forma. “Non è più qui”: punto di partenza e di riferimento che si sposta all’esterno… E il grande si amalgama al piccolo, diventandone parte e del quale fa esperienza.
Come il legno ad una stella, la più brillante che anticipa il cammino verso quel regno che non è di questo mondo.
Molto bella questa riflessione di Erri, che ogni tanto ritorna nei suoi scritti, pur se con parole diverse ma sempre toccanti e poetiche. Ha ragione Erri, spesso la croce è senza crocifisso ma è il corpo del condannato a far fiorire il legno del patibolo e il suo sangue di papavero a scacciare l’inverno. Già, ma resta sempre aperta la domanda che lui, il crocifisso, pose ai suoi compagni e discepoli: e voi chi dite che io sia?
Grazie Erri del tuo pensiero così lucido e insieme così poetico.
Ti leggo e mi nutro di questo tuo sguardo.
Te lo invidio anche un po’…vorrei avere in me una fonte così trasparente alla quale attingere. Anche pensando a Gesù Cristo, tu, che dici di non osare spingerti oltre il passo della fede, riesci ad esprimere l’amore di chi crede o forse anche di più…
Vorrei essere almeno un po’degna di questo segno che gli uomini hanno così spesso tentato di infangare senza riuscirci,questo segno è una parola che non si riesce ad addomesticare